Il tema degli esuberi per l’ex Ilva è tornato al centro dell’attenzione. La fuoriuscita pilotata di 2.900 lavoratori l’anno prossimo, e 4.700 nell’arco di tre anni, è una delle condizioni dirimenti posta dalla Arcelor Mittal per riprendere in considerazione la possibilità di rilevare l’ex Ilva e impegnarsi in un programma di investimenti. In pratica il dimezzamento del personale dipendente considerando i 1.300 esuberi già in essere.
I sindacati, come doveroso, chiedono il rispetto degli impegni assunti dalla multinazionale franco-indiana, sugli investimenti e sul personale, nel settembre del 2018 nell’ambito dell’intesa sottoscritta con il Governo precedente. Seppur consapevoli delle oggettive difficoltà che sono nel frattempo subentrate e che ne rendono praticamente impossibile l’attuazione. Del resto lo stesso Governo, riaprendo l’interlocuzione con l’Arcelor Mittal, ha offerto la possibilità di ridimensionare gli obiettivi produttivi e occupazionali subordinata agli investimenti per migliorare la compatibilità ambientale. Il che trasforma quello che viene eufemisticamente definito come il tavolo della trattativa in un tentativo di comporre interessi divergenti. Una parte dei quali, peraltro decisiva: ad esempio, la maggioranza dei parlamentari che sostengono il Governo, la magistratura e le istituzioni locali si riservano di entrare a gamba tesa di fronte a qualsiasi compromesso che possa essere raggiunto tra il Governo, l’azienda e le organizzazioni sindacali.
Arcelor Mittal ha chiarito i suoi obiettivi: vuole ridimensionare i volumi di produzione e il personale. Ed esternalizzare i costi della gestione degli esuberi e delle bonifiche mettendoli in carico allo Stato, perché ritenuti incompatibili con la gestione economica dell’azienda. La gara per l’assegnazione dell’ex Ilva aveva obiettivamente comportato un rialzo dell’asticella delle offerte oltre la soglia della sostenibilità. Potesse tornare indietro non credo che la società in questione assumerebbe tali rischi, considerata anche la difficile condizione ambientale.
Ma anche l’ eventualità di contenzioso con lo Stato rischia di comportare notevoli oneri, anche se l’imprenditore ha buoni alibi. Infatti, la sciagurata decisione di togliere lo scudo penale, e l’impossibilità di disporre a pieno degli altiforni per i divieti imposti dalla magistratura, lo hanno privato dei margini di iniziativa rivolti a contenere le conseguenze del forte calo della domanda di acciaio che si è verificato nel corso dell’ultimo anno.
I sindacati, chiedono il rispetto degli impegni sottoscritti, ma sanno bene che il vecchio piano industriale non esiste più. Temono, giustamente, che il ridimensionamento della produzione e del personale prefiguri l’esaurimento della funzione strategica del sito produttivo di Taranto, fondata sull’integrazione tra l’attività di fusione e quella di laminazione. Un’opinione confortata da molti esperti. E temono anche la massiccia iniezione di ammortizzatori sociali che favorirebbe una deriva assistenziale che, sotto sotto, viene desiderata da buona parte del personale diretto dell’Ilva. Non sfugga ai lettori che, nell’occasione dell’accordo del settembre 2018 venne preferito il collocamento in cassa integrazione dei 1.300 esuberi in alternativa al loro impiego a tempo indeterminato nei lavori di bonifica ambientale.
Il Governo finge di essere un mediatore, mentre sa di essere nel contempo carnefice e vittima della situazione. Carnefice, perché non è in grado di far rispettare gli impegni sullo scudo penale. Vittima, perché chiamato ad assumere i costi economici e sociali che l’azienda non vuole più sostenere. Conte e Patuanelli si lamentano della consistenza degli esuberi dichiarati da Arcelor Mittal, ma sanno bene che buona parte dei parlamentari che sostengono il Governo, e non solo dei 5 stelle, vogliono un ridimensionamento della produzione, se non proprio la definitiva chiusura degli impianti. Non sono disponibili ad assicurare il ripristino dello scudo penale e, sotto sotto, sperano che Arcelor Mittal rimanga con il cerino in mano per l’impossibilità di realizzare gli esuberi, che loro stessi hanno concorso a determinare.
Il Governo si è impegnato a mettere in campo un programma di investimenti pilotato dalla Cassa depositi e prestiti e dalle aziende statali per riassorbire gli esuberi. L’ennesimo piano, visto che, adottati in tempi migliori, ne sono già falliti tre. Compreso quello di rilanciare il porto, con gli imprenditori cinesi che, stanchi delle lungaggini, se ne sono andati al Pireo.
Sullo sfondo rimane la magistratura, o meglio le due magistrature. Quella locale che contesta alla gestione dell’ex Ilva di non aver fermato una parte degli impianti, e quella di Milano che contesta la decisione di fermarli. Sempre e comunque determinate a generare incertezze e ricatti. Tanto per non farci mancare nulla.
Un bel guazzabuglio. L’investimento su Taranto assomiglia in piccolo all’acquisto di un grande appartamento, con il vincolo per l’acquirente di ristrutturarlo, potendone utilizzare solo un paio di stanze e senza la cucina. Più che una trattativa rivolta a trovare un compromesso accettabile sembra il gioco a trasferire un cerino acceso con il carburante sotto i piedi. Ma nella condizione data il cerino in mano se lo ritroverà il Governo che prima o dopo dovrà scegliere se essere mediatore, vittima o carnefice.