Arcuri e Caio da un lato, Morselli dall’altro e attorno un folto gruppo di spettatori più o meno interessati: sindacati, imprenditori, giornalisti e curiosi di vario genere. È l’ennesima puntata di uno sceneggiato che dura oramai da oltre tre anni e del quale nessuno sa prevedere la conclusione… come nei migliori sceneggiati. Ma diversamente da “Beautiful” qui sono in gioco persone e interessi reali: lavoro, salute, economia nazionale e dei territori, lavoratori e cittadini di importanti aree del nostro Paese. Dunque non si può scherzare, né fare chiacchiere da salotto, come purtroppo sta accadendo anche in questa vicenda non a caso approdata anche a “Porta a Porta” di Bruno Vespa. Ma veniamo ai fatti.
Si dice che lo Stato deve entrare nel capitale di Arcelor Mittal Italia (AMI); non si esclude che possa essere in maggioranza e gli indiani in minoranza (vedi Morselli a “Porta a Porta” del 18 giugno). Va benissimo, succede anche nelle migliori famiglie: in Francia è prassi corrente, in Germania lo mascherano ma alla fine succede, in America fanno finta di credere al mercato sovrano, ma poi il Governo ci mette paccate di dollari, per non parlare della Cina. Dunque non è questa la questione. Ci sono però due problemi non piccoli.
Il primo è la governance, ovvero chi fa che cosa. In questo caso sembra ovvio immaginare che AMI (qualunque sia la sua quota) abbia la responsabilità operativo-gestionale e gli altri soci compiti di indirizzo strategico. Ma Mittal non è un socio qualunque; lui sa certamente gestire un’acciaieria, ma al tempo stesso opera sullo scacchiere mondiale della siderurgia. È abituato a far tornare i conti muovendo tutte le sue pedine in modo da vincere sempre la partita. In questi mesi ha messo in discussione impianti che sembravano intoccabili come quelli di Fos-sur-Mer a Marsiglia. Quando si entra in società con lui, questo deve essere chiaro.
Il secondo problema di chi sta negoziando con AMI è dunque proprio quello di conoscere la sua strategia generale e in qual modo il Governo italiano può concorrere a definirla, visto che sul tavolo sembra voler mettere molti soldi (fatti tutti i conti non meno di 4 miliardi). E anche quando tutto ciò possa essere chiarito, capire quali sarebbero i vantaggi di una partnership così importante e onerosa per il Paese e per la sua economia. Non esiste una ricetta per risolvere questo problema. Esiste solo la fiducia e il riconoscimento che le parti interessate reciprocamente si danno. E purtroppo né l’una, né l’altro sembrano essere i valori prevalenti che in questi anni hanno caratterizzato i rapporti tra Stato e Mittal. Sarebbe un matrimonio di convenienza nel quale è chiara quella di Mittal, ma molto meno la convenienza del nostro Paese.
All’obiezione che Mittal è l’unico “marito” sulla piazza, io penso si debba rispondere seccamente: “meglio nubile ”. Proprio così. Riprendiamoci l’Ilva e rimettiamola all’onore del mondo (perché oggi non lo è checché ne dica Morselli), facendolo diventare il migliore e più salubre impianto siderurgico esistente, ricorrendo alle best practice tecnologiche che consentano di renderlo davvero carbon free. Facciamolo gestire da manager e tecnici validi che il nostro Paese può sicuramente esprimere (nonostante il grave silenzio degli imprenditori siderurgici nazionali). Investiamo i soldi che dovremmo dare ai privati e garantiamo per un tempo dato (4-5 anni) la copertura delle inevitabili perdite di gestione. Al termine di questa operazione, mettiamo in vendita il più importante impianto siderurgico europeo al miglior offerente, sperando che nel frattempo la propensione all’intrapresa torni ad albergare anche tra gli imprenditori di casa nostra così da tenere l’Ilva in Italia.
Nel frattempo gestiamo il problema occupazionale che, non nascondiamocelo, esiste. Ben sapendo che un conto è gestire gli esuberi in un arco di tempo definito e per un progetto riconosciuto da tutte le parti, mentre è cosa ben diversa gestire esuberi dentro strategie sconosciute e con interlocutori che dei nostri interessi si preoccupano molto poco. Per queste ragioni potrebbe essere di un certo interesse prevedere una governance nella quale in qualche modo siano coinvolte anche le parti sociali (a partire certamente dal sindacato).
Si dirà che, al di là di queste chiacchiere, qui si sta proponendo la solita nazionalizzazione; anzi la costruzione a partire da Ilva di una nuova Gepi mascherata da Invitalia poiché gli impianti sono troppo malmessi. Non è l’intenzione di questa proposta, ma certamente il rischio esiste. Però si permetta una domanda: questo rischio è maggiore o minore di quello che si corre mettendoci nelle mani di uno dei più importanti player del settore i cui interessi verso l’Italia sono decisamente modesti (come ampiamente dimostrato)? Io credo che sia minore e comunque è giunto il momento di provarci perché le condizioni economiche, gestionali e sociali ci sono.
Oggi è il momento di sviluppare e realizzare “progetti-Paese” con obiettivi molto concreti e quello di coniugare lavoro salute qualità dell’ambiente e qualità dello sviluppo è certamente un obiettivo per il quale vale la pena di spendere risorse, intelligenze e anche (perché no?) correre qualche rischio. Questo dell’Ilva italiana può diventare un caso di successo non solo per la siderurgia, ma anche per il Sud che negli ultimi 10 anni ha perso tanta ricchezza umana ed economica e non può permettersi di perderne altra.