Alcuni dei maggiori gruppi industriali europei hanno deciso di investire in una start up svedese per produrre acciaio senza causare emissioni nocive. Secondo il Financial Times partecipano all’iniziativa la famiglia Agnelli tramite la controllata Exor, Wallemberg e Maersk, insieme ad aziende come Mercedes Benz, Ikea, Marcegaglia, Scania e l’amministratore delegato di Spotify. È stato raccolto un capitale di 105 milioni di dollari per finanziare H2Green, il primo grande stabilimento al mondo che produrrà acciaio senza inquinare.



La H2Green punta a entrare in esercizio appena sotto il circolo polare artico nel 2024, con l’obiettivo di produrre annualmente 5 milioni di tonnellate di acciaio libero da emissioni entro la fine del decennio. L’innovativo procedimento che permetterà di produrlo senza inquinamento sarà possibile grazie all’impiego di idrogeno “verde”, prodotto con energie rinnovabili invece che con il metodo tradizionale a carbone.



Questo era il contenuto del dispaccio di agenzia dal quale si deduceva che: 1) l’impianto, presumibilmente greenfield, sarà terminato nel suo montaggio e per la successiva messa in esercizio non prima del 2024; 2) che si punterebbe solo su forni elettrici; 3) che solo entro la fine del decennio appena iniziato – siamo infatti ancora a maggio del 2021 – si produrranno a regime 5 milioni di tonnellate all’anno, con l’impiego di idrogeno “verde” da energie rinnovabili, che si suppone a partire dal 2024 sarà disponibile a costi decrescenti, e pertanto non proibitivi per poter concorrere a una produzione siderurgica competitiva. Intuitivamente i forni elettrici – di cui non si specificava il numero, ma che potrebbero essere 2 da 2,5 milioni di tonnellate ciascuno – si utilizzerebbero con l’impiego dell’idrogeno preridotto di ferro e rottame.



Ora, premesso che il capitale di avviamento della start up pari a 105 milioni di dollari appare ictu oculi ancora limitato rispetto a un investimento che avrà dimensioni complessive ben maggiori – dall’acquisto dei terreni a quello dei macchinari e dal loro montaggio a quello delle materie prime per l’avvio del ciclo produttivo, sino all’assunzione della manodopera di cui peraltro non si specifica la quantità nella varie fasi di esercizio della nuova acciaieria, dal suo avvio alla messa a regime -, abbiamo evidenziato le tempistiche di medio-lungo termine previste per l’entrata in produzione del nuovo sito perché molti osservatori in Puglia e a Taranto hanno subito pensato di poter applicare quel modello impiantistico allo stabilimento di Acciaierie d’Italia, sostituendovi ut sic l’area a caldo ora esistente – sul cui funzionamento peraltro pende ancora la sentenza del Consiglio di Stato – e iniziando l’installazione di un ciclo produttivo full electric simile a quello previsto in Svezia, da avviarsi in esercizio entro un triennio, secondo la proposta avanzata da Danieli, Saipem e Leonardo che ipotizzano un investimento di 6 miliardi per una produzione a regime fra i 6 e i 7 milioni di tonnellate, salvando l’occupazione e abbattendo l’inquinamento.

Ma il Siderurgico ionico potrebbe uscire dal mercato per tre anni come qualcuno pure ipotizza? Perché questo significherebbe dismettere l’attuale area a caldo imperniata su 3 altiforni, gli AFO 1, 2 e 4, e tenerlo in produzione solo come laminatoio. E chi avrebbe convenienza a portare bramme da laminare a Taranto con i costi di trasporto da sostenere per l’arrivo e la ripartenza dei materiali lavorati? E gli occupati nel frattempo – che solo nel sito del capoluogo ionico ammontano a 8.200 addetti diretti – andrebbero tutti in cassa integrazione, creandone così una sacca di grandi proporzioni che si aggiungerebbe a quella di circa 1.700 unità attualmente in cigs presso l’Amministrazione straordinaria dell’ex Ilva? E l’indotto e la sua occupazione, che si stima prudenzialmente in non meno di 5.000 unità fra primo, secondo e terzo livello, che fine farebbero? E le fabbriche di Genova e Novi Ligure, collegate “a valle” come sarebbero alimentate? 

Sembrerebbe pertanto impraticabile la pura e semplice imitazione del modello impiantistico previsto in Svezia. A Taranto, invece, a nostro avviso – usando un’espressione in voga molti anni orsono – bisognerebbe cambiare il motore della fabbrica mentre la stessa rimane in esercizio, riprendendo dall’esempio svedese l’adozione di forni elettrici da alimentare con impiego di preridotto di ferro, da prodursi però a costi competitivi grazie a un prezzo contenuto del gas – e di idrogeno “verde” da prodursi anch’esso a costi competitivi, mediante elettrolizzatori di grande potenza da alimentarsi con energia da fonti rinnovabili. Ma perché si giunga a un assetto produttivo così innovativo che abbia costi di produzione accettabili per ogni tonnellata di acciaio con quelli della concorrenza e che salvaguardi la massima occupazione possibile, è necessario un arco temporale di qualche anno – lo ha dichiarato anche il ministro della Transizione ecologica Cingolani – anche se il percorso di innovazione deve partire ora, insieme a interventi sugli attuali altiforni per ridurne ulteriormente le emissioni nocive, considerando inoltre che è in corso l’attuazione degli interventi previsti dall’Aia in vigore.

La strada comunque è tracciata e anche il Ministro Giorgetti ieri l’altro ha ribadito che la stessa Ue vuole – nei tempi tecnici necessari, naturalmente – una produzione di acciaio green con impiego di idrogeno, resa possibile dall’impiego dei fondi del Recovery plan. È evidente dunque che bisogna avviare una fase di transizione dall’assetto impiantistico attuale a quello che si stabilirà di installare a Taranto.

Allora, rispetto al piano industriale definito a suo tempo da Invitalia e Arcelor durante il Governo Conte, ora si dovrebbe decidere – e si presume che al Mise ci stiano lavorando, sperabilmente con l’accordo politico e il supporto tecnico della Federacciai presieduta da Alessandro Banzato – se, una volta fissato il tetto produttivo massimo raggiungibile nell’impianto, procedere comunque al revamping dell’AFO5, fra i maggiori d’Europa ma spento da qualche anno, installando un solo forno elettrico, o se, invece, ferme restando le attuali colate degli AFO 1, 2 e 4, non si debba avviare l’installazione di almeno due forni elettrici con la costruzione dell’impianto di preriduzione. Una volta entrati in esercizio, si dismetterebbero gli attuali AFO, e rimarrebbe da stabilire se, dopo il revamping, l’AFO5 resterebbe in funzione, proprio per i grandi volumi che può assicurare, o meno, cosi come sarebbe necessario definire il nuovo assetto di marcia delle due acciaierie dello stabilimento.

Ma se i forni elettrici avranno bisogno, con il preridotto e l’idrogeno verde, di elevate quantità di rottame – data la scarsezza relativa dello stesso sul mercato interno e su quelli internazionali – se ne dovranno evitare con cura tensioni sui prezzi che potrebbero danneggiare l’elettrosiderurgia privata italiana che resta per qualità di produzioni e tecnologie impiegate fra le migliori d’Europa.

E non si dovranno in alcun modo sottovalutare le problematiche produttive e occupazionali attuali e future delle aziende dell’indotto, così come sarà necessario mettere a punto piani credibili di rioccupazione per la manodopera oggi di Acciaierie d’Italia che con il nuovo assetto impiantistico di Taranto è destinata a non rientrare nel suo sito. Così come ci si dovrà preoccupare degli effetti produttivi e occupazionali “a valle” sugli stabilimenti di Genova e Novi ligure.

È insomma un gigantesco turnaround quello che si prospetta in riva allo Ionio che dovrà essere gestito senza dilettantismi propagandistici, ma con ferrea volontà politica, assoluta lucidità progettuale, con management di standing elevato, e con cronoprogrammi di interventi impiantistici e occupazionali credibili, da verificarsi con rigorosa puntualità. Taranto, la Puglia e l’Italia non possono permettersi di perdere lo stabilimento siderurgico della città, ma lo vogliono profondamente ammodernato e reso ecosostenibile nei tempi tecnicamente necessari e in percorsi progettuali condivisi con tutti gli stakeholder locali e nazionali.

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