Com’è noto, Governo e ArcelorMittal hanno raggiunto un accordo che per quanto non chiuda la vicenda – anzi, lascia aperte molte questioni che troveranno forma da qui a novembre 2020 – mette fine al contenzioso legale avviatosi a seguito della revoca dello scudo penale, quando il management franco-indiano ha presentato l’atto di citazione per il recesso dagli accordi in essere con l’Esecutivo italiano presso il Tribunale di Milano. Il Governo ha così posto rimedio a un pasticcio generato da un incomprensibile intervento del Parlamento che, in questa fase, non ha lasciato un grande potere contrattuale ai nostri negoziatori.



In primis, il termine dell’acquisto dei rami d’azienda è stato anticipato – dal 23 agosto 2023 – al 31 maggio 2022. Nel capitale di ArcelorMittal Italia, entro il 30 novembre 2020, dovranno entrare investitori pubblici e privati. Il valore dell’azienda è, tuttavia, ancora da stabilire. Il governo vuole convincere i creditori coinvolti (Intesa e Bpm in particolare, ma anche Cdp) a trasformare i crediti in equity. Gli investitori pubblici e privati entreranno per dare avvio a una produzione green fatta da un forno elettrico – dovevano essere due a dire il vero – e alimentata dalla tecnologia del preridotto (gas, idrogeno e monossido di carbonio).



Se tutto ciò non avverrà, ArcelorMittal avrà facoltà – dal 30 di novembre pv – di recedere dagli accordi pagando una penale da 500 milioni. C’è chi sostiene che il futuro sia già scritto: Mittal a fine anno lascerà l’Italia. Le cose stanno davvero così? Che Mittal lasci l’ex Ilva è chiaramente una possibilità. Del resto, la multinazionale franco-indiana aveva avviato un iter di recesso e, quantomeno, si è costruita una exit strategy che, nel caso più estremo, a questo punto prevede un’uscita ordinata. Non va dimenticato che l’azienda perde 2 milioni di euro al giorno.



Vi è però un’altra possibilità che non è del tutto da escludere. Il Governo sta mobilitando risorse ingenti che possono fare molto comodo all’azienda, sia da un punto di vista finanziario che industriale. E c’è da pensare che, circa la riconversione industriale, l’Esecutivo – e l’Europa stessa – facciano sul serio: Taranto può infatti essere una best practice del green new deal, ovvero del nuovo piano economico industriale col quale l’Europa sta mobilitando 1.000 miliardi in 10 anni per il rilancio della sua industria. Questo naturalmente per staccare Usa e Cina verso la transizione energetica e per competere in modo nuovo nel mondo.

Da un punto di vista industriale, oltre alla nuova tecnologia di produzione, il piano prevede aumenti graduali della produzione (ora stimata attorno ai 4 milioni di tonnellate di acciaio) per raggiungere gli 8 milioni di tonnellate entro il 2025. È previsto che entro il 31 maggio l’azienda si accordi col sindacato in relazione ai livelli occupazionali: vi è da decidere il futuro dei 10.700 dipendenti di Mittal e dei 1.800 di Ilva in amministrazione straordinaria. Va ricordato che, al momento, già 1.300 lavoratori sono in cassa integrazione. Questo è uno degli aspetti più critici, non a caso mercoledì i sindacati di categoria insieme alle loro confederazioni hanno diffuso un comunicato in cui esprimono diffidenza e timore per il futuro della siderurgia e dei lavoratori e dove ribadiscono che non intendono muoversi rispetto agli accordi sottoscritti a settembre 2018.

In sintesi: vi sono questioni molto aperte – investimento pubblico e ridiscussione piano industriale col sindacato- che potrebbero evolvere in modo tale da risultare interessanti per ArcelorMittal. O, forse, per un’altra azienda (nel caso in cui Mittal dovesse lasciare). Le risorse che il Governo si appresta a muovere ci inducono tuttavia a un cauto ottimismo: la siderurgia a Taranto può superare questo momento difficile e avere un futuro, al di là di Mittal.

Twitter: @sabella_thinkin

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