Dopo il successo dello sciopero dei giorni scorsi, oggi, al Mise, è previsto l’incontro tra il Ministro Luigi Di Maio e i sindacati sull’attuazione dell’accordo del 6 settembre 2018 e sulla collocazione in cassa integrazione di 1.400 dipendenti per 13 settimane da parte di ArcelorMittal, i cui responsabili hanno incontrato il ministro nei giorni scorsi per esaminare i possibili rimedi alla situazione creata dall’emendamento introdotto nel Decreto crescita a proposito dell’abolizione dell’immunità per fatti precedenti. È noto, del resto, che la nuova norma era stata considerata dai vertici aziendali subentrati – dopo un percorso travagliato – nella proprietà dell’acciaieria, come la ritrattazione di un impegno sostanziale, tanto che il suo venir meno aveva provocato la minaccia di chiudere lo stabilimento a partire dal 1° settembre.



Non sono mancate, anche in questo caso, le suffragette del giustizialismo ad accusare il nuovo management di volersi sottrarre strumentalmente alle leggi, in quanto nell’ordinamento giuridico italiano la responsabilità penale è personale e le norme non possono essere retroattive. Ma che la questione sia importante lo ha riconosciuto persino una nota della Fim-Cisl, l’organizzazione che vanta le migliori credenziali nell’aver salvato lo stabilimento: Al Governo invece – è scritto nel comunicato –  avanziamo una richiesta ancor più marcata: si tenga fede agli accordi ed agli impegni presi, e gli incontri non siano solo passerelle per recuperare voti e consenso sulla pelle dei lavoratori.  La revisione dell’immunità inserita nel Decreto crescita  sta creando solo una situazione di incertezza e fornisce l’alibi all’azienda. L’immunità va chiarito, è necessaria per tutelare legalmente l’attuale acquirente rispetto a problematiche e responsabilità che gli attuali gestori non hanno causato ed è limitata fino 2023, anno in cui secondo l’accordo dovranno essere ottemperate tutte le misure dell’Aia”.



È difficile, allora, dare torto ad Arcelor-Mittal nella realtà di Taranto dove la guerra allo stabilimento siderurgico ha trovato nella procura uno dei principali protagonisti. Proprio in questi giorni il Gup del Tribunale di Milano ha assolto con formula piena Fabio Riva (componente della famiglia già proprietaria dell’Ilva: imprenditori messi alla gogna, espropriati e commissariati) dal reato di bancarotta. Si tratta di una sentenza che induce a riflettere sulla narrazione di questi ultimi anni in merito alle condizioni e alle prospettive di una delle più grandi acciaierie d’Europa a capitale italiano (gli indiani sembrano molto interessati alla nostra industria di base tanto che recentemente sono subentrati nella Magona, storico gruppo siderurgico italiano).



Vedremo come andrà l’incontro di oggi. Dipenderà molto dalla linea di condotta dei sindacati, i cui gruppi dirigenti, sia pure in modo diverso, sono stati assai condizionati, nella gestione della vertenza, dal clima di ricatti creato intorno allo stabilimento, come se subissero un riflesso pavloviano (o esponessero una voluminosa coda di paglia) ogniqualvolta (e sono state tante) entravano in campo la procura e le lobby ambientaliste. Mi sono sempre chiesto che cosa fosse fuori posto in quell’area: lo stabilimento o il quartiere Tamburi? Probabilmente sarebbe stato reso un miglior servizio alla giustizia a indagare sulle amministrazioni che avevano consentito una lottizzazione per la costruzione di abitazioni a due passi da un “mostro dell’acciaio”. Il comportamento più incomprensibile è – tuttavia – quello del ministro Di Maio che ha fatto di tutto per mettere l’operazione salvataggio dell’Ilva sotto una cattiva luce.

Dapprima evocando gravi irregolarità (mai accertate o provate) nel bando e nell’assegnazione, poi blaterando in Aula di vero e proprio delitto di Stato, con effetti irreversibili che il Governo, a quel punto, poteva solo subire. È tipico del M5S avvalersi dell’arma del discredito nella convinzione che il solito moralismo d’accatto, per giunta inventato di sana pianta, potrebbe fare aggio per giustificare una sciagura gravissima come la chiusura dell’Ilva e la prospettiva della disoccupazione per migliaia di lavoratori. I sindacati, però, non possono affrontare le sfida che si profila per la sopravvivenza dell’acciaieria (con gli investimenti e il risanamento previsti) con un braccio legato dietro la schiena e con l’aria di dover chiedere scusa per essere costretti a svolgere il proprio mestiere. E non sarà la prima volta in cui devono affrontare una richiesta di cassa integrazione (per di più ordinaria).

Ma c’è anche un versante culturale da difendere. Produrre acciaio non è come coltivare garofani. Lo si può e lo si deve fare meglio, in modo più pulito e in maggiore sicurezza per l’ambiente e le persone. È questa la nuova frontiera dell’industria. Ma muoiono molti più bambini di fame, di malattie e di stenti in quei paesi in cui non sanno che cosa sia una ciminiera.

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