Come scrivevamo qualche giorno fa, la nomina di Lucia Morselli alla guida di Arcelor Mittal Italia è un fattore non secondario se si vuole provare a capire quale futuro attende la ex Ilva. Basta parlare con qualche sindacalista che conosce bene le vertenze dell’industria italiana e tutti dicono la stessa cosa: “evidentemente c’è da lasciare a casa un po’ di gente”. Nessuno ha dimenticato la vertenza delle Acciaierie di Terni (ThyssenKrupp, 2014) risoltasi dopo 35 giorni di dura mobilitazione e sciopero. E a guidarla, era proprio lei: la lady di ferro come la chiama qualcuno.
Il fatto che il nuovo ad si ritrovi alla testa della divisione italiana al posto di Matthieu Jehl, è evidentemente un’operazione che ha delle ragioni e che non può essere maturata in poche ore. Come è noto, in virtù di un accordo M5s-Pd, il cosiddetto scudo penale è stato stralciato ieri dal decreto salva imprese, dopo che era stato abolito dal Governo M5s-Lega e poi reinserito in uno degli ultimi provvedimenti dell’esecutivo giallo-verde con vincoli precisi al rispetto del Piano ambientale. Nel frattempo, le commissioni Industria e Lavoro del Senato hanno approvato un ordine del giorno con cui si impegna il Governo a garantire la permanenza dell’attività produttiva, la salvaguardia dei posti di lavoro e una progressiva decarbonizzazione dell’impianto. Tuttavia – come spiegava Rocco Palombella ieri su queste pagine – la decarbonizzazione per lo stabilimento di Taranto non è praticabile sia per le caratteristiche del processo produttivo che è a ciclo integrale, sia per l’imponente quantità di acciaio da produrre. In pratica, si tratta di un documento che non serve a nulla se non a fare un po’ di scena.
Naturalmente i vertici di Arcelor da tempo sapevano di questa intenzione del governo che non solo ha dell’incredibile – soprattutto da parte Pd – ma ha tutte le sembianze di un regolamento di conti interno ai dem: ora che non ci sono più Renzi e Calenda ci si può prendere la propria rivincita su Ilva.
È in questo quadro che è maturata la volontà dell’azienda di ristrutturarsi e di arruolare così Lucia Morselli, soprattutto in ragione di come sta andando il mercato dell’acciaio. La crisi del settore dell’auto e la concorrenza dell’acciaio cinese in particolare hanno infatti comportato una forte contrazione della produzione italiana: Mittal perde due milioni al giorno e ha già messo in cassa integrazione 1.300 lavoratori fino a dicembre. Il piano industriale prevedeva per il 2019 la produzione di 6 milioni di tonnellate di acciaio ma la produzione effettiva dovrebbe attestarsi a fine anno attorno ai 4,5 milioni (che significa -25%).
Da questo punto di vista è sempre più insistente la voce secondo la quale Mittal conta di chiudere l’area a caldo (come a Genova) e di tagliare così 5.000 posizioni lavorative. Tuttavia, sempre Palombella – che non solo è tarantino ma in Ilva è stato per 30 anni – spiegava ieri perché senza l’area a caldo lo stabilimento di Taranto non sarebbe più economicamente sostenibile.
Al di là dell’area a caldo, la verità è che l’ennesima piroetta del governo sta offrendo un grande assist a Mittal per avviare una grossa vertenza finalizzata a ridurre l’organico a Taranto. I più attenti ricorderanno che all’inizio della trattativa sindacale lo scorso anno, il colosso franco-indiano era partito proponendo un’assunzione di 8.000 dei quasi 14.000 lavoratori in carico all’ex Ilva. La trattativa è finita con quasi 12.000 assunzioni. Probabilmente, complice anche la contrazione del mercato dell’acciaio, questa è l’occasione che il sig. Mittal aspettava per portare ordine.
Ma c’è di più: per l’azienda resta necessario trovare un paracadute che metta al sicuro i suoi manager da incursioni giudiziarie. Secondo indiscrezioni, ArcelorMittal avrebbe dato al governo un paio di settimane per trovare una soluzione definitiva. Dopo di che non resterebbe che la prospettiva del “disimpegno” e la conseguente richiesta di danni. Per Mittal non sarebbe un grande danno, anche perché della ex Ilva ha acquisito soprattutto il portafoglio clienti. I tarantini si consoleranno col reddito di cittadinanza e Di Maio, Emiliano e Boccia faranno grande festa. Ma l’industria italiana piangerà.
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