C’è attesa per l’incontro del 9 luglio al Mise in cui si discuterà del futuro dell’ex Ilva di Taranto con i sindacati e ArcelorMittal. Ieri si è tenuto uno sciopero di otto ore su tre turni, proclamato da Fiom, Fim, Uilm e Ugl per protestare contro l’avvio della procedura di cassa integrazione ordinaria per 1.395 dipendenti e c’è stato anche un incontro privato tra il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, e i vertici del colosso siderurgico franco-indiano, al termine del quale non è stata rilasciata alcuna dichiarazione. Abbiamo chiesto un commento a Rocco Palombella, Segretario generale della Uilm.



A che punto siamo col progetto nuova Ilva rispetto agli accordi del settembre 2018?

A novembre 2018 ArcelorMittal si è insediata in tutti gli stabilimenti Ilva d’Italia utilizzando gli impianti e il personale ancora alle dipendenze dell’Ilva in Amministrazione straordinaria. Ha gestito i lavoratori con la formula del distacco, ovvero ancora assunti nella vecchia Ilva prima di iniziare la fase, molto delicata, di selezione del personale da assumere in ArcelorMittal dal 1° gennaio 2019. Sono stati individuati circa 10.700 lavoratori provenienti da impianti in esercizio, dai servizi di manutenzione e quelli collegati agli impianti in marcia. Rispetto ai livelli occupazionali e al personale selezionato, i criteri di selezione non sono stati resi noti e questo ha generato tensioni e problemi tra i lavoratori con tanto di ricorsi giudiziari a opera di una specifica organizzazione sindacale.



Come valuta il comportamento di ArcelorMittal in questo anno di lavoro?
In questi primi mesi del 2019 si è notato subito un clima diverso rispetto agli anni precedenti. D’altronde siamo passati da una fase commissariale, iniziata il 26 luglio 2012, a quella della nuova gestione da parte di un soggetto privato leader mondiale nella produzione di acciaio. Si è notata subito un’attenzione e un approccio diverso dal passato rispetto ai temi della salute e sicurezza sul lavoro e al rispetto dell’ambiente. Ci sono sembrati molto determinati nel realizzare il piano di investimenti previsti dal Dcpm del settembre 2017 rispetto al piano ambientale: il completamento della copertura dei nastri trasportatori e l’ambizioso progetto della copertura dei parchi primari, a partire dal minerale di ferro. Sul piano delle relazioni industriali, invece, hanno tenuto purtroppo un’impostazione unilaterale, al contrario di quello che è previsto dall’accordo.



Prevedevate che ci potesse essere a questo punto una richiesta di cassa integrazione da parte dell’azienda?

No, per alcune ragioni di merito che proverò a sintetizzare. ArcelorMittal si è impegnata a realizzare un impegnativo piano ambientale, ma anche un altrettanto importante piano industriale con date di scadenza dei singoli interventi e relativa risalita produttiva fino al 2024. Per il 2018 era prevista una produzione di circa 6 milioni di tonnellate di acciaio liquido più 3 milioni circa di semilavorati (bramme) provenienti da altri stabilimenti, per un totale di circa 9 milioni di tonnellate. Attualmente è stimano che Taranto produrrà in questo anno circa 5 milioni di tonnellate, quindi 1 milione in meno rispetto alle previsioni, a causa della crisi del mercato dell’acciaio. Ecco perché non doveva essere interessato dall’inaspettata richiesta di cassa integrazione ordinaria di 13 settimane a partire dal 1° luglio. È sembrata quindi più un’azione strumentale che non dettata dalla reale necessità tecnica o di mercato.

E il Governo come si sta comportando?

Il Governo aveva mostrato una sua presa di responsabilità con l’accordo del 6 settembre 2018, successivamente si è inserito in un sistema pericoloso e ha smarrito completamente le ragioni ambientali produttive e occupazionali che erano alla base del percorso di questi lunghi anni. Ha provato ad ascoltare il presidente di Regione, il sindaco e decine di associazioni “ambientaliste” senza rendersi conto della grande portata degli accordi. Mentre parliamo non sappiamo quale sarà il destino di migliaia di lavoratori, di un piano ambientale che vale circa 2 miliardi di euro, della produzione di acciaio in Italia, e delle tante comunità italiane.

C’è davvero il rischio che l’investitore abbandoni il suo progetto e chiuda così lo stabilimento?

Il Ceo europeo di ArcelorMittal, Geert van Poelvoorde, ha annunciato che se non sarà ripristinata l’immunità penale prevista dal contratto col governo, dal 6 settembre chiuderanno lo stabilimento di Taranto. Al di là del fatto se ArcelorMittal sia o meno in grado di chiudere l’ex Ilva di Taranto, essendo attualmente l’affittuario, una cosa è certa: si aprirebbe un contenzioso internazionale dai confini e dai tempi incerti, con gravi conseguenze e ingenti risarcimenti. Inoltre, il Governo italiano sarebbe impossibilitato dall’individuare un nuovo acquirente in tempi brevi e disponibile ad accettare queste condizioni per gestire uno stabilimento sotto sequestro e che necessita di ingenti risorse economiche per far fronte al piano ambientale, agli investimenti impiantistici e alla gestione ordinaria.

Cosa chiedete, in sintesi, ad ArcelorMittal e cosa invece al Governo?

Ad ArcelorMittal chiediamo di evitare di fare gli stessi errori che hanno fatto i precedenti proprietari dell’Ilva, ovvero di mettersi contro tutti. La richiesta della cassa integrazione, ad esempio, ha dimostrato solo di voler penalizzare i lavoratori e mettersi contro i sindacati senza una reale necessità. Devono, invece, chiedere garanzie al Governo perché è giusto che non paghino per gli errori del passato che non hanno commesso. Inoltre, gli chiediamo di interrompere la procedura della cassa integrazione utilizzando strumenti gestionali (ferie, riduzioni di orario di lavoro) per eventuali rallentamenti produttivi. Dal Governo, invece, ci aspettiamo una norma chiara relativa alle responsabilità sulla gestione dello stabilimento di Taranto; l’applicazione del Dpcm deve costituire un elemento inequivocabile di garanzia nei confronti dell’acquirente fino alla realizzazione dei vari adeguamenti ambientali.

Non c’è forse bisogno di un lavoro maggiormente condiviso da parte di istituzioni, impresa e sindacato per rendere meno distante il progetto nuova Ilva dalla città di Taranto in particolare?

In modo particolare in questi anni la città di Taranto è stata al centro di un grande conflitto sociale. Questo ha determinato divisioni e lacerazioni che hanno coinvolto strati importanti della società. ArcelorMittal, le associazioni di cittadini, le organizzazioni sindacali e in primis il Governo e le istituzioni, tutti dovremmo essere protagonisti di una fase nuova in cui gli interessi del singolo lasciano il posto all’interesse collettivo. Basta con la logica irresponsabile di cercare consensi sulla pelle dei cittadini. Tutti dovremmo essere coinvolti e consapevoli della grande importanza degli impegni che sono stati assunti e che possono finalmente assicurare il risanamento ambientale. Nel mondo si producono circa 2 miliardi di tonnellate di acciaio, alla fine del piano ambientale l’Ilva di Taranto ne produrrà circa 8 milioni; com’è possibile che altrove esiste il connubio ambiente-lavoro e a Taranto non ci riusciamo? Penso che dobbiamo ripartire da questa domanda per provare a fare un passo in avanti.

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