C’è voluto più di un anno dalla visita del Premier Conte allo stabilimento di Taranto (novembre 2019) perché l’annunciato piano di rilancio dell’ex Ilva prendesse finalmente forma con un accordo, siglato poco dopo la mezzanotte dello scorso 10 dicembre, che sancisce l’ingresso dello Stato, attraverso Invitalia, nel capitale di Arcelor Mittal Italia. Un’intesa che dovrà passare il vaglio della Commissione europea e che si pone l’obiettivo di portare la produzione di acciaio da 3,3 a 8 milioni di tonnellate annue nel 2025, con il progressivo riassorbimento dei dipendenti in cassa integrazione. Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil in settimana hanno chiesto un incontro congiunto al Mise, anche perché, come ci spiega Rocco Palombella, Segretario generale della Uilm, «noi non conosciamo dettagliatamente cosa prevede questa intesa. Ci risulta che sia il frutto di un accordo economico-finanziario che parte da un compromesso legale dopo tre mesi dalla richiesta di recesso presentata da Arcelor Mittal. A distanza di nove mesi dall’accordo del 4 marzo hanno raggiunto un’intesa lo scorso 11 dicembre, ancora riservata fino al pronunciamento dell’Antitrust europeo che ci auguriamo possa arrivare entro fine gennaio 2021.



Per quello che vi è noto, che cosa apprezzate di questo accordo?

Tra gli aspetti che ci sembrano positivi ci sono l’ingresso di Invitalia in Arcelor Mittal Italia (Ami) che deve avere necessariamente un ruolo attivo nella gestione della società e l’avvio concreto della transizione ecologica con la realizzazione di un forno elettrico e di due impianti di DRI. Con questo accordo si deve voltare pagina rispetto alla gestione disastrosa dello Stato dal 2012 al 2018 dell’ex Ilva.



Che che cosa invece non vi convince?

Non ci convincono le tempistiche del piano industriale che prevede da subito migliaia di lavoratori in cassa integrazione per cinque anni. Inoltre, è stata cancellata la clausola di salvaguardia occupazionale per gli attuali 1.600 di Ilva in Amministrazione straordinaria che dovevano rientrare a lavoro entro il 2023. Attualmente il piano non prevede la tutela occupazionale per tutti i lavoratori, diretti, indiretti e di Ilva As. Un altro aspetto che non ci tranquillizza è il dover attendere il pronunciamento dell’Antitrust europeo. Inoltre, dobbiamo aspettare altri due anni prima di imboccare la strada di una prospettiva credibile, che può avvenire solo dopo il dissequestro degli impianti. Tutti questi temi dovranno essere al centro di una discussione libera e senza pregiudiziali che deve iniziare al più presto. Non c’è tempo da perdere!



Insieme a Fim e Fiom avete appena chiesto un incontro al Mise. Perché?

Nell’ultimo incontro del 30 novembre, il Ministro Patuanelli si era impegnato a convocare una riunione dopo la firma dell’accordo. Incontro che si terrà il 22 dicembre con i Ministri Patuanelli e Catalfo. In quell’occasione ci auguriamo di poter conoscere nel dettaglio i termini dell’intesa e quale percorso negoziale si vuole intraprendere sul piano industriale e sui livelli occupazionali.

Nell’accordo ci sono anche condizioni che chiamano in causa i sequestri disposti dalla Procura di Taranto. C’è da preoccuparsi di questo aspetto?

Il dissequestro degli impianti avverrà esclusivamente a valle della realizzazione delle opere di adeguamento ambientale, previsto per la metà del 2022. I tempi e il cronoprogramma rappresentano le uniche garanzie per assicurare la continuità produttiva e l’atto di vendita.

Il Governatore della Puglia Emiliano ritiene che l’accordo non tuteli la salute e l’ambiente. Come commenta queste dichiarazioni?
Emiliano non valorizza il piano che prevede l’avvio della decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto. La richiesta di chiudere l’area a caldo appare strumentale poiché rappresenterebbe la chiusura del sito. Bagnoli insegna che una volta che gli stabilimenti siderurgici vengono chiusi e non bonificati diventano bombe ecologiche nel territorio che li ospita. Il modo migliore per salvaguardare la salute e l’ambiente dei tarantini è quello di fare tutti gli adeguamenti ambientali necessari e contemporaneamente gestire la transizione ecologica con intelligenza salvaguardando l’occupazione. Tutto questo ricordo che era previsto anche nell’accordo sindacale sottoscritto al Mise il 6 settembre 2018.

C’è chi critica questo intervento pubblico soprattutto perché Arcelor Mittal si troverebbe in una società potenzialmente concorrenziale con il suo gruppo internazionale. Inoltre, non si hanno certezze che lo Stato poi esca dall’azienda nei prossimi anni. Cosa ne pensa?

Arcelor Mittal è leader mondiale dell’acciaio e l’ex Ilva può continuare a rappresentare un produttore importante per il mercato italiano e per quello del Mediterraneo. Per evitare questo rischio, Ami ha ottenuto una sua autonomia rispetto alla casa madre dotandosi di una struttura commerciale ad hoc.

Lucia Morselli, amministratore delegato di Ami, ha ribadito che non ci saranno esuberi strutturali. Sono parole che vi tranquillizzano?

No. L’accordo dell’11 dicembre prevede migliaia di lavoratori in cassa integrazione per cinque anni (3mila nei primi due anni). La risalita produttiva, con la realizzazione del forno elettrico e dei due impianti DRI, avverrà nel 2025. Cinque anni ci sembrano un’eternità per realizzare un piano industriale credibile e un enorme sacrificio per migliaia di famiglie. Con questo accordo è stato cancellato l’impegno ad assumere i 1.600 lavoratori in Ilva As come previsto dall’intesa del 2018.

Morselli ha dichiarato che anche nel caso arrivi uno stop europeo all’operazione, Arcelor Mittal non lascerà l’Italia. Ritenete possa esserci ancora il rischio di una chiusura dello stabilimento di Taranto?

Nel breve periodo non la temiamo, anche perché c’è una buona ripresa del mercato dell’acciaio, a dimostrazione di come questo sia indispensabile per l’industria. Non la temiamo anche perché, dopo l’accordo dell’11 dicembre, è decaduto il diritto di recesso di cui poteva avvalersi ArcelorMittal dietro il pagamento di 500 milioni di euro. In caso di uno stop europeo all’ingresso di Invitalia, si dovrà trovare un altro partner pubblico che porti avanti gli investimenti ambientali e industriali previsti dall’accordo. Ci auguriamo che questa ipotesi non si realizzi anche perché non sussistono gli elementi per considerare questa operazione come aiuto di Stato.

È stato detto più volte che il rilancio e la riconversione dello stabilimento di Taranto, utilizzando anche fondi europei, sono cruciali per il Paese. È una sfida che si può vincere? Qual è la vera posta in palio?

È una sfida che si deve vincere, la posta in palio è rilevantissima. Parliamo della più grande acciaieria europea, con 20mila lavoratori tra diretti e indiretti. Rappresenta un settore cruciale per il nostro Paese, per i tanti comparti industriali e per la sua ripresa dopo gli effetti drammatici della pandemia. Nel 2021 si devono porre le basi per il rilancio dell’ex Ilva.

(Lorenzo Torrisi)

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