“Non ho mai visto un piano, le uniche proposte serie le hanno avanzate i sindacati. Oggi sulla sorte dell’Ilva di Taranto sono molto preoccupato: credo che sia arrivata all’epilogo. E hanno fatto di tutto di provocare questa fine”. Così si esprime Giulio Sapelli, economista e profondo conoscitore della storia dell’industria italiana, all’indomani della paradossale sentenza – che Sapelli definisce “super anti-industriale” – della Corte d’Assise di Taranto, arrivata dopo una lunga serie di errori e di scelte sbagliate da parte di molti governi.



“Gestire un’acciaieria – aggiunge Sapelli – è di una complessità enorme, servono personalità molto competenti che oggi in Italia si contano sulle dita di una mano”. E un’eventuale chiusura di Taranto avrebbe ripercussioni economiche, occupazioni e sociali “devastanti”.

Professor Sapelli, come valuta la sentenza della Corte d’Assise di Taranto?



E’ una sentenza super anti-industriale per due ordini di motivi. Innanzitutto, non sana una questione gravissima: qualsiasi cosa abbia fatto la famiglia Riva, ammesso che l’abbia fatta, non può portare all’espropriazione. Si susseguono le incomprensioni dei magistrati, e dei legislatori, sulla legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese o sulla considerazione dell’impresa come personalità giuridica. Si era addirittura arrivati al sequestro della tesoreria, quando al massimo, applicando la common law, da cui deriva la 231, si possono comminare multe. Non c’è alcun paese al mondo dove si espropriano gli stabilimenti.



E il secondo motivo?

E’ una sentenza che non tiene insieme quello a cui tutti invece dovremmo tendere: ambiente, lavoro e industria.

La partita giudiziaria rischia di ingarbugliarsi ancora di più, visto che sull’Ilva incombe, forse già questa settimana, l’attesa sentenza del Consiglio di Stato, chiamato a ribadire o meno la sentenza del Tar di Lecce del 13 febbraio scorso che – confermando un’ordinanza del sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 – aveva disposto la fermata degli impianti dell’area a caldo, ritenuti inquinanti, entro 60 giorni. Se il Consiglio di Stato confermasse la sentenza del Tar si rischia il fallimento dell’Ilva?

Lo spegnimento delle linee a caldo è la morte di un impianto che produce acciai piani di altissima tecnologia come l’Ilva. Queste produzioni non si fanno con i forni elettrici, ma con gli altiforni, che possono essere alimentati a carbone o a gas. E qui c’è la prima pesante responsabilità dei governi precedenti che hanno deciso di puntare sul carbone. Il solo fatto che ci sia stata una sentenza simile è semplicemente pazzesco. E ancora più drammatico è che il Consiglio di Stato non abbia ancora dato una risposta su una questione così impellente. E’ la prova che si sta smontando tutto. E si sta avverando il disegno dei privatizzatori degli anni Novanta, che hanno trovato la loro ideologia di supporto.

Quale?

Come racconta benissimo Domenico Rea, il capitalismo estrattivo franco-tedesco-cinese – a cui si è poi aggiunto quello indiano – a partire dallo smantellamento di Bagnoli ha potuto mettere le mani sulla siderurgia italiana, in seguito a un susseguirsi di scelte sbagliate della nostra politica industriale. Ma questo capitalismo estrattivo ha poi trovato l’ideologia dell’ambiente.

Perché dice questo?

Perché questa ideologia ha speculato sulle sofferenze delle persone, senza fare mai nulla per evitarle. E anche la politica locale è parte di questo fumo.

In effetti si parla molto di risanamento ambientale e degli impianti, ma in concreto non si è fatto granché. Con i fondi del Recovery fund si riuscirà ad attuare la trasformazione del sistema produttivo siderurgico dell’Ilva in chiave ecosostenibile?

Non scherziamo. Innanzitutto queste risorse arriveranno tardi, quando l’Ilva sarà già chiusa, anche se mi auguro di no. E poi questi fondi dovranno essere implementati dalla Regione Puglia e dagli enti locali.  Mi viene il terrore alla sola idea che sarà la Regione che si è schierata contro il Tap o che non ha impedito la Xylella a implementare una politica di trasformazione green dell’acciaio… Ma chi ci crede?

Il ministro Cingolani ha dichiarato di aver “fatto un piano per togliere il carbone all’altoforno, elettrificarlo e passare subito al gas per abbattere la CO2 del 30%, sperando di essere velocissimi sull’ulteriore passaggio all’idrogeno”. Che ne pensa?

Con tutto il rispetto, ma che c’entra l’idrogeno? L’idrogeno brucia qualsiasi metallo con cui viene a contatto, non si è ancora trovato il modo di idrogenare un impianto siderurgico. Forse ci arriveremo fra 20 anni. Il vero passo avanti ci sarebbe se si passasse all’ossigeno, come potevano fare Arvedi e l’indiana Jindal.

In base a una legge del 2012, Taranto è un “impianto di interesse strategico nazionale”. Questa qualifica può fare da scudo davanti a possibili sentenze di chiusura dello stabilimento?

E’ l’ennesima conferma alla nostra capacità di inventarci qualcosa. Dire “impianto di interesse strategico nazionale” non giustifica di per sé una politica industriale. Non ci dovrebbe essere bisogno di qualificarlo così. Se un impianto è strategico, non lo si dichiara, ci si comporta in modo che lo sia.

A questo punto che cosa dovrebbe fare la politica?

Niente. Uno: perché adesso la politica la fanno i magistrati; due: perché qualsiasi cosa faccia la politica sarebbe peggio, scatenerebbe un conflitto istituzionale come la decisione dell’allora governo Letta di garantire la manleva agli amministratori. Una grave offesa allo stato di diritto. I governi nel tempo hanno continuato la linea Prodi: distruggere l’industria italiana.

C’è una soluzione che può dipanare la matassa?

A suo tempo avanzai la proposta di trasformare l’Ilva in un trust, in una not for profit, affidata a un amministratore unico, sciogliendo tutti i consigli d’amministrazione e cercando di amministrarla come un bene comune. Una proposta oggi ancora più valida. In alternativa, non avendo adeguata conoscenza di come si amministra un common good, si potrebbe trasformare l’Ilva in una cooperativa di lavoratori, che saprebbero gestirla meglio di tanti proprietari e top manager.

Nello stabilimento di Taranto lavorano 2.800 addetti diretti più altri 5mila nell’indotto…

La chiusura di Taranto avrebbe ricadute occupazionali spaventose, non solo per la città e la regione, ma per tutta la filiera dell’acciaio che Taranto serve.

Quanto è strategica l’Ilva?

Produce il 70% degli acciai piani che vanno all’industria meccanica italiana, in gran parte formata da piccole imprese che dovrebbero ricorrere ad altri fornitori, perdendo così in qualità e redditività, perché dovrebbe acquistare acciaio a prezzi maggiori. Non solo: l’Ilva rappresenterebbe la testa di ponte del sistema industriale italiano per la ricostruzione del Grande Medio Oriente e della Mesopotamia.

Che c’entra la Mesopotamia?

Presto in Libano e in Siria ci sarà un grande bisogno di acciaio e questo lo poteva benissimo fare l’Ilva, seguita da una schiera di medie imprese italiane. Ora invece ci penseranno i turchi.

Come si sono comportati i sindacati in questa vicenda dell’Ilva?

Molto bene: hanno manifestato grande serietà, hanno avanzato proposte. Tanto di cappello, e lo dico io che non sono molto tenero con i sindacati.

Dopo l’ingresso di Invitalia e la nascita di Acciaierie d’Italia qual è oggi l’interesse vero di ArcelorMittal?

Non so a cosa puntino adesso, so solo che, quando presero l’Ilva, dichiararono prima che erano in sovracapacità produttiva. Ho sempre visto questo loro ingresso nell’Ilva come un modo per eliminare un concorrente. Da quando sono arrivati non hanno fatto nulla per rinnovare tecnologicamente l’azienda e hanno iniziato subito a licenziare. Invece gli indiani di Jindal, che erano in cordata con Arvedi, che fa siderurgia a ossigeno senza problemi ambientali, non erano in sovracapacità produttiva: come mai il governo non li ha preferiti?

E Invitalia che ruolo dovrebbe giocare?

Invitalia non ha risolto il problema Bagnoli, che è ancora lì intatto. Non credo abbia capability e forse neanche la volontà di risolvere le cose. In più oggi è azzoppata: il suo amministratore delegato ha appena subìto una delegittimazione come Commissario straordinario per l’emergenza Covid. Avendo dissipato due generazioni di manager pubblici, oggi lo Stato non può entrare direttamente nelle imprese come faceva l’Iri, può al massimo garantire dei fondi di dotazione per trasformare queste aziende in not for profit o in cooperative.

Chi può trarre vantaggio da un’eventuale chiusura di Taranto?

Innanzitutto proprio gli indiani di ArcelorMittal, poi la siderurgia tedesca.

Rischiamo davvero di restare senza produzione di acciaio?

Oggi in tutto il mondo si riscopre l’acciaio, salvo che in Italia. La perdita dell’Ilva sarebbe un colpo durissimo. Per fortuna nel nostro paese abbiamo ancora quelli che io definisco eroi: Gozzi, Pasini, Calvetti… Continuano a produrre acciaio tra Lombardia e Liguria, pur fra mille difficoltà.

(Marco Biscella)

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