Dire che la vicenda dell’Ilva e dello stabilimento di Taranto abbiano radici lontane forse è banale, ma è certamente vero. Forse le radici del problema stanno nelle nostro modo di affrontare le cose. In ogni caso con il passare degli anni quello che una volta era il fronte italiano della produzione a caldo di acciaio, il fronte della siderurgia, quello in nome del quale i governi democristiani sacrificarono altri finanziamenti europei, convinti che l’acciaio servisse al sistema produttivo industriale legato alla trasformazione, si è ridotto, gli stabilimenti sono stati chiusi o modificati, si pensi a Genova. E Taranto è rimasta la sola area a caldo. Taranto quindi, per intenderci, è l’unico stabilimento che lavora la trasformazione per raggiungere la produzione del grezzo. Tutti gli altri stabilimenti lavorano a freddo per produrre tutti i tipi di materiale finito. Resta quindi fondamentale affermare la necessità della produzione di acciaio, se l’Italia vuole rimanere una potenza industriale come lo è stata fino a oggi.
Taranto ha la più grande acciaieria d’Europa, che pesa nel rapporto dell’associazione europea dei produttori di acciaio che già nel 2013 dichiaravano la necessità di ridurre la produzione europea di acciaio di 10 milioni di ton/anno (guarda caso una cifra che coincide con la potenzialità dello stabilimento pugliese). Per capire la battaglia che si gioca intorno alle ciminiere tarantine, quando fu raggiunta l’intesa con Arcelor Mittal, una delle concorrenti, Thyssen Group, pensò bene di fare ricorso alla Commissione europea provando a convincere Bruxelles che l’accordo era aiuto di Stato.



Sono decenni che noi dibattiamo su Taranto: se ne parlava già durante il periodo in cui le acciaierie erano gestite dalla Famiglia Riva. Tutti ne discutono, eternamente contesi tra Coppi e Bartali. Sta di fatto che il duro confronto sull’importanza della produzione di acciaio ha portato a dividere gli abitanti della città tra i favorevoli alla produzione e a quel lavoro così indispensabile per un’area in profonda crisi occupazionale e i contrari per il rischio salute che questa fabbrica comporta. Le proteste non sono tanto indirizzate ai fumi, ma alle polveri sottili che si estendono a buona parte della città.



Va ricordato ai fautori (e ce ne sono) della trasformazione di Taranto in una prefigurazione del Paradiso terrestre o in un’imitazione della Polinesia francese tra palmeti e sabbie dorate, che anche uscendo dalla produzione di acciaio le polveri oggi sono accumulate in vaste aree e in buona parte anche nel sottosuolo. Senza dimenticare che nei dintorni ci sono l’Eni, di cui non si discute ma che non risulta essere priva di rischi ambientali, e l’Arsenale Militare. La campagna elettorale poi ha scatenato la fantasia di molti partiti che si sono divisi tra favorevoli e contrari sia per le acciaierie che per la Tap.



E che significa, direbbero alcuni? Significa, si sostiene negli ambienti sindacali, e a gran voce in Cisl, che la bonifica va fatta, ma mantenendo la produzione di acciaio e trasformando le lavorazioni dei forni ricorrendo al più pulito sistema elettrico. Insomma, la tecnologia c’è. Parliamo della volontà e della modalità. I pentastellati sono i più convinti sostenitori del blocco di attività considerate inquinanti. Vediamo anche qui con un po’ di lucidità di cosa si parla.

La norma di salvaguardia, denominata scudo penale, è stata predisposta nel 2015 su richiesta del commissario di allora e successivamente inserita nell’accordo di cessione ad Arcelor Mittal. Tale salvaguardia è stata messa in discussione fino all’approvazione del Decreto denominato “Salva Imprese” del 3 settembre 2019 che l’ha reintrodotta. Nella riconversione in legge di tale decreto, un emendamento partito dalle fila 5 Stelle e sponsorizzato dall’ex Ministro Lezzi non ha consentito il trasferimento nella legge già a partire dall’iter parlamentare del Senato.

In nome delle tensioni interne al PentaMovimento ci si è dati la zappa sui piedi. Zappata che Arcelor Mittal ha preso al volo come scusa per rompere l’accordo firmato. Facendosi scudo della protezione legale (sospesa), ma la decisione nasconde anche il problema della crisi del mercato che oggi al massimo potrebbe raggiungere i 4 milioni di tonnellate anno, circa la metà di quanto asserito nell’accordo 2018. Insomma, alla difficoltà oggettiva di risanare una fabbrica molto, ma molto, in crisi si aggiunge quella di un mercato piegato dalle decisioni di Trump di combattere l’acciaio cinese sulla pelle del resto del mondo.
Lo scudo penale sarebbe dovuto rimanere attivo per tutto il periodo concordato alla bonifica e alla messa in sicurezza dello stabilimento che non ha avuto la sufficiente manutenzione per un’infinità di anni. E avrebbe dovuto morire con la fine dei lavori. A margine di questo paragrafo del grande libro delle acciaierie tarantine, si consideri che a inizio estate un’ingiunzione da parte della magistratura obbligò il gruppo a effettuare lavori di manutenzione straordinaria all’altoforno 2 dove nel 2015 era morto un ragazzo. 

Va bene. Ma come uscirne? Negli ambienti sindacali, in particolare la Cisl, le idee sono chiare. Punto fondamentale per ogni percorso di soluzione è che venga rispettato il patto dello scudo: non solo per Arcelor, ma per tutti coloro che avranno a che fare con queste strutture. Senza questo addio al punto di vista strategico sull’importanza di avere l’acciaio in Italia. Ma anche per ragioni tattiche: si tratta di stanare un’azienda che passa in pochi mesi dall’investimento massiccio di miliardi di euro alla fuga precipitosa, e di inchiodarla alle proprie responsabilità. Tanto più che in giro non si vedono frotte di investitori smaniosi di mettere i loro soldi in un sistema Paese che ha, diciamo, qualche falla.

Arcelor Mittal e Conte si sono incontrati: è un primo elemento positivo, anche se non si tratta di una svolta. Se non altro l’azienda, pur continuando a negare di voler rientrare in gioco, si presta ad ascoltare qualche possibile soluzione.

Uno degli argomenti sul tappeto, lo sappiamo tutti, è che l’ingresso di Cassa depositi e prestiti possa agevolare il cambiamento. Ma anche qui, qualcuno deve pur domandarsi: si tratta del solito sistema per cui nell’emergenza si va da quei pochi che hanno i soldi, nel caso italiano Cdp, e li si usa senza una strategia? Oppure c’è dietro un progetto industriale, una visione? Tanto più che Cdp non è una gallina, e tanto meno un gallinaceo dalle uova d’oro.

Altra cosa, si pensa tra i sindacati e in Cisl in particolare, è se a rientrare nella compagine non fosse solo Cdp, ma essa fosse affiancata anche da qualche interlocutore pubblico con capacità industriale, con un ruolo più strutturale nella gestione. Una nuova Iri? Sembra di sentire le urla e gli strepiti dei soloni liberali. E perché no? Perché una volta faceva di tutto, dalle auto ai panettoni? Beh oggi dovrebbe solo fare acciaio. E allora discutiamone: senza ideologie e senza dietrologie. Potrebbe essere un bene o un male. Fin qui le privatizzazioni all’amatriciana, o meglio all’italiana, sono state solo un’occasione per arricchire i già ricchi. Con risultati quanto meno discutibili, a giudicare da certi eventi e certi risultati. Se l’ingresso di Cdp fosse temporaneo avrebbe un senso diverso da uno definitivo. Se fosse strutturale, altro tipo di valutazione da fare. L’importante è che non sia un ingresso random: andiamo da Cdp perché ci sono un po’ di soldi e tiriamo a campare per qualche mese.

E visto che siamo in tema di eresie liberali, sarebbe troppo pensare di imitare quei Paesi, come la Francia, che ricorrono con maggiore energia e decisione all’aiuto del sistema bancario? In fondo da noi per adesso ci siamo limitati a usare i soldi pubblici per coprirne le perdite. E se per una volta anche loro, il sancta sanctorum del liberalismo, restituissero alla collettività quel che fin qui gli è stato dato?

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