DOVE VA L’ILVA? I segnali di ripresa dell’industria italiana, per quanto diversificati per settori e territori, sono ormai evidenti e presto l’Istat attesterà con le sue stime sull’andamento più complessivo del Pil quanto quel rilancio vi abbia inciso in termini percentuali.

Certo, le misure assunte anche dal Governo Draghi per contenere la pandemia stanno rallentando la domanda di determinate tipologie di beni di consumo immediato e semidurevole acquistati da comparti che, subendo gli effetti più duri dei micro lockdown, sono stati solo molto parzialmente ristorati dai primi interventi di sostegno del nuovo esecutivo. È anche vero tuttavia che altri beni – dagli alimentari ai farmaci, dall’elettronica di consumo (grazie allo smart working) agli arredi per la casa, con tutte le filiere merceologiche lunghe che li producono, li imballano, li trasportano e li stoccano – stanno mantenendo le posizioni che erano riuscite lo scorso anno a conservare o ad accrescere.



Ma anche i beni strumentali e quelli legati alla domanda dell’edilizia pubblica e privata – con l’avvenuta apertura di cantieri per alcune grandi infrastrutture anche nel Sud, e quella imminente trainabile dal superbonus 110% e dal Recovery plan – stanno recuperando posizioni, sostenuti pure dalle esportazioni.



È ripartita così la domanda di acciaio per l’industria siderurgica nazionale che nel 2019 ha fatturato 55 miliardi, occupando 33.400 addetti diretti, confermandosi così la seconda in Europa per produzione: una colonna portante per la nostra manifattura che – come non si stancano di sottolineare il Prof. Antonio Gozzi past President di Federacciai, e il suo attuale Presidente Alessandro Banzato – annovera campioni straordinari di efficienza e resistenza, veri player di standing europeo dell’elettrosiderurgia italiana.

Nel mese di gennaio la produzione di piani a caldo – dopo aver registrato un calo del 15,9% nel 2020 – ha segnato un aumento del 2,8% su base annua. Ma sta crescendo la domanda anche di prodotti lunghi, tubolari e piatti, semilavorati in forma di barre, travi, rotaie, tondi per cemento armato, vergella, laminati mercantili, lastre, fogli e bobine, usati per l’industria delle costruzioni e per molte altre trasformazioni. In una prospettiva di medio termine, la branca fornitrice di materiali per l’edilizia, la cantieristica navale e per la meccanica dei beni strumentali andrà presumibilmente meglio di quella per l’automotive perché – come ha affermato il Prof. Gozzi – le “auto elettriche richiederanno meno viti e bulloni”.



La siderurgia nazionale dunque con le sue aziende leader raccolte nella Federacciai – autorevolmente guidata da Alessandro Banzato, a sua volta al vertice delle Acciaierie Venete – continua ad essere uno dei motori dell’industria nazionale ed è singolare che nella prima versione del Pnrr del Governo Conte-2 non fosse neppure citata, insieme peraltro a tutta l’industria italiana. Ed è auspicabile allora che la versione definitiva del Recovery plan recuperi in pieno non solo una “vision” prospettica della nostra industria, ma contribuisca anche a tracciare le linee guida di un piano per la siderurgia del Paese, in cui perseguire finalmente una sistemazione sperabilmente definitiva anche degli impianti di Taranto e di Piombino: siti che, però, costituiscono solo il 15% della siderurgia nazionale.

Lo stabilimento ionico, comunque, oltre a essere il più grande (per capacità installata) impianto “singolo” a ciclo integrale d’Europa – a Duisburg in Germania sono in esercizio due acciaierie della ThyssenKrupp che insieme totalizzano una capacità superiore a quella del sito tarantino – è tuttora anche la maggiore fabbrica manifatturiera italiana per numero di addetti diretti (8.200), cui sono legati “a valle” i siti di Genova e Novi Ligure; pertanto avviare a soluzione la “vexata quaestio” di Taranto significherebbe anche contribuire al rafforzamento del manifatturiero non solo nell’Italia meridionale, ma nell’intero Paese.

Nei giorni scorsi il Ministro Giorgetti, incontrando con il collega Orlando i sindacati di categoria, ha detto loro che per autorizzare Invitalia a dare corso all’accordo con Arcelor Mittal per un suo ingresso con 400 milioni nel capitale di AM InvestCo è necessario un parere della Avvocatura dello Stato, poiché si è in attesa della sentenza del Consiglio di Stato del 13 maggio che, dopo aver accordato la sospensiva richiesta dall’azienda, dovrà però esprimersi nel merito su quella del Tar di Lecce che, invece, aveva accolto l’ordinanza del Sindaco per lo spegnimento dell’area a caldo, in assenza di interventi aziendali, dopo alcuni fenomeni emissivi della fabbrica ritenuti particolarmente nocivi.

Ora, al di là di questa complessa partita a scacchi fra ordinanze, ricorsi societari alla giustizia amministrativa di primo grado, sentenze della stessa di conferma di quanto statuito dall’Amministrazione comunale, nuovo ricorso dell’azienda alla suprema magistratura amministrativa, sospensive, giudizi di merito e pareri legali della Avvocatura dello Stato – che potrebbe ritenere non consigliabile l’ingresso di una finanziaria pubblica in una società la cui area a caldo potrebbe essere avviata a spegnimento dalla sentenza di merito del Consiglio di Stato, determinando così il tracollo della fabbrica ionica – è necessario, a nostro avviso, che il Governo Draghi affronti la questione siderurgica tarantina rapidamente, ma con grande respiro strategico.

Andrebbe ribadito con forza infatti che lo stabilimento locale – già classificato da una legge del dicembre 2012 come impianto di interesse strategico nazionale – non solo non può essere sottratto in quanto tale alle sue funzioni di servizio all’industria meccanica italiana, ma che se ne dovrebbe affrontare l’ammodernamento e/o la totale riconversione del ciclo produttivo, operando con grande equilibrio, al di là dell’estremismo ambientalista dello stesso Sindaco del capoluogo, e partendo da una rigorosa valutazione delle ingenti risorse realmente necessarie per ogni scelta che si compisse, delle tecnologie già disponibili e di quelle attendibilmente applicabili nei prossimi anni, e dei minori livelli occupazionali che ne deriverebbero, se si volesse puntare come propongono alcuni esperti, a una soluzione impiantistica full electric.

Lo scorso anno nel siderurgico ionico si sono prodotte solo 3,5 milioni di tonnellate, picco negativo assoluto della fabbrica. Quest’anno, nel piano industriale concordato fra Invitalia e Arcelor e già presentato ai sindacati, se ne prevederebbero 5, con colate da tre altiforni l’1, il 2 e il 4, mentre si avvierebbero i lavori di revamping del gigantesco AFO5, spento da anni, con un investimento nel triennio 2021-2023 di 266 milioni.

Sul tavolo del Mise ci sono dunque il piano ufficiale appena richiamato fra Invitalia e Arcelor Mittal – che prevede inoltre di portare la produzione a 8 milioni di tonnellate nel 2025 con due altiforni (l’AFO5 e l’AFO4), e un forno elettrico, alimentato con preridotto di ferro da prodursi in una struttura edificabile in loco, e con un’occupazione complessiva fra Taranto, Genova e Novi Ligure degli attuali 10.700 addetti – e una proposta di Danieli, Saipem e Leonardo che prevederebbe invece di dismettere i 3 altiforni e sostituirli con 3 forni elettrici e tre impianti di preriduzione, in un arco temporale di realizzazione di 35 mesi dalla ricezione dell’ordine da parte del committente: non è chiaro peraltro, almeno per quanto è noto allo scrivente, a quale livello di produzione si attesterebbe in tale proposta la capacità massima e in quali tempi, mentre in entrambi i piani – a parte l’evidente diversità dei loro approcci tecnologici – restano da approfondire molto più analiticamente le problematiche occupazionali, non solo per gli addetti diretti nello stabilimento tarantino, ma anche per quelli altrettanto numerosi delle imprese dell’indotto che non sono solo locali, perché negli ultimi sei mesi sono scese, chiamate da Arcelor, società provenienti dal Nord e dall’estero. Resterebbero infine da focalizzare meglio nei due piani le ricadute produttive e occupazionali su Genova e Novi Ligure.

Se non si affrontano (sciogliendoli finalmente) questi nodi molto complessi – se necessario con una diretta assunzione di guida dell’intero processo decisionale da parte di palazzo Chigi – è difficile che si potrà andare molto lontano, aggravando così una situazione in fabbrica e in città ormai difficilmente sostenibile.

Sarebbe bene allora che tutti, nessuno escluso – Commissione europea, presidenza del Consiglio, Ministri interessati, Parlamento, sindacati – facciano fino in fondo per quanto di rispettiva competenza la loro parte, in un percorso che, se sarà certamente lungo e costoso, non potrà in alcun modo prescindere dall’occuparsi – ben al di là della propaganda – non solo del futuro lavorativo di migliaia di operai, tecnici, quadri e dirigenti, ma anche delle reali esigenze delle città di Taranto, Genova e Novi Ligure.

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