Il veleno dell’Ilva è rimasto trent’anni a sobbollire nell’alambicco di un mondo che cambiava senza nessun alchimista che capisse, o che si preoccupasse, di quello che la più grande acciaieria d’Europa stava covando nel suo ventre.
Quella che era stata presentata come un’apoteosi – la privatizzazione a favore del gruppo privato fondato da Emilio Riva – è stata invece l’inizio della fine. Come le sentenze si sono incaricate di rivelare, ma con un cinismo che travalica i confini del codice penale, l’imprenditore privato ha spremuto fino all’ultima stilla il limone della redditività di un settore ciclico che oggi spaventa per la sua enorme capacità di bruciare cassa, ma che in passato per molti anni ne ha prodotta come una stamperia della Zecca. I Riva hanno simulato una buona gestione che trascurava, in realtà, i continui segnali d’allarme ambientale e sanitario e che non investiva con lungimiranza sulla sostenibilità economica dell’impianto. Finché nel 2012 il loro bluff è venuto allo scoperto.
Fino a quel momento, la costruzione in parte virtuosa in parte velleitaria della siderurgia di Stato aveva potuto diluire le sue carenze progettuali nella responsabilità rilevata dall’imprenditore. Uscito di scena quest’ultimo, però, sono state le istituzioni – in varie forme, quasi sempre discordi tra loro – a tornare allo scoperto ed aggiungere insipienza su insipienza, fino al disastro di oggi.
La magistratura, innanzitutto: perché l’allarme eco-sanitario è stato giusto lanciarlo, la gestione della misurazione della sua entità ha lasciato finora amplissimi spazi di caos e grandi margini di negazionismo a chi aveva interesse a minimizzare.
Il commissariamento, perché l’entità del pericolo industriale oltre che ambientale avrebbe sicuramente potuto e dovuto essere gestita con più concretezza, e non nell’attesa di una vendita apparsa a lungo una chimera ed oggi, dopo neanche un anno, tornata ad essere tale.
I governi, ondivaghi nella gestione della gara, fino al paradosso di aver fatto schierare la holding pubblica più direttamente gestita dall’esecutivo, cioè la Cassa depositi e prestiti, al fianco della cordata guidata da Jindal, che è stata poi posposta ai franco-indiani di Arcelor Mittal.
Vi immaginate un’altra nazione europea, per esempio la Francia, che si pone contemporaneamente come arbitro e giocatore di una gara pubblica e si esclude dal podio? Impensabile, eppure l’abbiamo fatto.
E oggi? Oggi il dilemma: o lavoro e morte, o stop ai veleni ma disoccupazione, e insomma morire di fame o morire avvelenati è un dilemma che lo Stato non può accettare. Contare su un gruppo di indiani spergiuri è peggio che imprudente, è puerile. Certo, quelli di Mittal hanno le loro ragioni: lo scudo penale promesso e poi revocato, soprattutto. Ma semplicemente non avevano previsto la crisi della domanda siderurgica mondiale ed hanno trovato un ottimo pretesto per rinegoziare le clausole dell’acquisizione, e davvero senza un sostanziale vantaggio non torneranno in campo.
Dunque non resta che pagare. Pagare, chiedendo scusa all’Europa di dover pagare, pregando l’Europa di lasciarci pagare. Almeno 500 milioni all’anno, ha calcolato Il Sole 24 Ore, se non addirittura 885 a seconda che si decida di chiudere l’impianto fino a bonifiche effettuate e mandare lo stipendio a casa a 10.700 persone, o si preferisca farne lavorare 6mila impegnando denaro per questo e comunque sovvenzionare gli esclusi.
E finiremo col pagare: noi contribuenti. Come sempre, come con l’Alitalia. È stato coraggioso, Giuseppe Conte, ad affrontare a viso aperto i sindacalisti di Taranto. Onesto nel dire loro che non aveva una soluzione in tasca. Ma onesto al 90 per cento. Perché la soluzione lui ce l’ha, non nella sua, ma nelle nostre tasche.