Il momento che sta attraversando l’industria italiana non è sicuramente dei migliori: l’ex Ilva, la questione Whirlpool, l’affaire (per i francesi) del matrimonio tra Fca e Psa e l’eterna questione Alitalia che rischia di finire malissimo sono solo le ultime notizie di un bollettino di guerra che, a scadenze, rinnova il trend di un Paese che da troppi anni non sa mettere in piedi un sistema in grado di rappresentarlo. La politica, questo è chiarissimo, da circa 25 anni ci ha messo del suo, facendo tutto il contrario di quello che dovrebbe attuare con quella che possiamo definire la confusione odierna totale dove si dice e si fa tutto e il contrario di tutto allo stesso tempo.
È chiaro come in tutto questo bailamme manchi un elemento fondamentale per costruire l’economia di un Paese: la cultura nei vari settori che, anche quando c’è, viene gentilmente invitata a farsi da parte o, lo abbiamo già scritto, a emigrare. Però basta vedere come si comportano altri Paesi, anche loro Ue (quindi nelle stesse logiche) quando si tratta di cedere assets importanti per la loro economia nazionale per vedere levate di scudi e decisioni spesso incredibili quando imprese di altri Paesi tentano di acquisire i loro assets.
C’è tutta una storia a dimostrare questo: ultimo caso è quello dei cantieri francesi Stx che, dapprima privatizzati da una firma sud-coreana che poi ha portato l’impresa al fallimento, una volta che la nostra Fincantieri l’ha rilevata d’accordo con Hollande, Macron, arrivato all’Eliseo, è subito intervenuto dicendo che Stx è un’impresa di importanza nazionale e quindi invitando gli italiani a togliersi di torno. Poi si raggiunse un comico accordo con un 49% delle azioni in mano a Fincantieri, un monto uguale per lo Stato Francese e un 2% ceduto in affitto a Fincantieri per un periodo di tempo. Tutto ciò mentre le imprese d’Oltralpe (ma non solo le sole) hanno trattato l’Italia alla stregua di un mercato per fare shopping senza molte regole.
Che dire a questo punto? Forse che sarebbe ora, in barba a certe filosofie che a parole parlano di libero mercato, però quando si tratta di società di importanza nazionale passano al protezionismo più sfacciato, di applicare lo stesso metodo: qui però si tratta di ricostruire una società che possa, attraverso regole di mercato, porre le aziende sotto una tutela statale che possa garantirne lo sviluppo ma allo stesso tempo metterle al servizio di un’economia nazionale in grado di usarle per potersi rafforzare e imporsi.
Questo non vuol dire nella maniera più assoluta succhiare il latte dello Stato passivamente, come accaduto finora, ma concentrarsi affinché politiche industriali serie possano favorirne lo sviluppo e camminare da sole, ma con uno Stato in grado di difenderle considerando la loro importanza nazionale. In parole povere far nascere una specie di Iri 2 che possa però, con una missione differente, salvaguardare imprese chiave per la nostra economia.
Altro fattore importante è una politica che dovrebbe finalmente ascoltare la gente: quella che dal 2008 paga le conseguenze di una crisi mondiale, ma che in Italia, tramite politiche di austerità, non vede che peggiorare le proprie condizioni: perché continuando di questo passo e con esempi sempre più eclatanti di piazze che reclamano politiche più confacenti al loro benessere, per la classe politica attuale dominata da questioni finanziarie o da una mancanza culturale da anni potrebbe scoccare l’ora di un cambio radicale o la fine della poco dignitosa “terza repubblica”.