Prima la vicenda Whirlpool, poi quella relativa all’ex Ilva, con in mezzo la prevista introduzione di tasse che rischiano di penalizzare alcuni settori produttivi (quello della plastica su tutti): per il Governo sembra essersi aperta una “questione industriale”, testimoniata anche dalla lettera al Foglio del Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, in cui si chiede di “svegliarsi dal torpore che ci sta prendendo”, soprattutto perché “in nome di una malintesa sostenibilità ambientale possiamo andare incontro a una sicura insostenibilità economica e sociale”. «Questa ‘questione’ esiste ed è il vero punto debole del Governo per via della cultura politica, economica e direi etica delle due componenti principali della maggioranza», ci dice Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie.



Ci può spiegare meglio cosa intende dire?

Pd e M5s sono partiti distaccati culturalmente (una specie di élite) dal mondo reale di cui dicono di essere espressione. È in Emilia Romagna, per esempio, come racconta anche Guareschi con Don Camillo, che è nato quell’incontro con la cultura democristiana che ha consentito al comunismo italiano di diventare parte del miracolo economico del Paese. È ora incredibile che un partito, il Pd, che dovrebbe essere espressione di questa cultura, si metta a tassare la plastica ignorando che la tecnologia e l’industria di questo settore sono proprio in quella regione.



Questo per quanto riguarda il Pd. E i 5 Stelle?

Si considerano l’espressione diretta del popolo, ma non si rendono conto che la deindustrializzazione non è un concetto che appartiene agli italiani. L’Italia è un Paese industriale e il popolo italiano è fatto di operatori dell’economia, anche di operai che sono anche tecnicamente più preparati di una volta. L’errore più tragico dei pentastellati è che non conoscono la politica industriale e i problemi che l’economia vive sul territorio che vorrebbero rappresentare. Al Sud, in particolare, promettono il reddito di cittadinanza, invece che infrastrutture, semplificazioni negli appalti e ricostruzione nelle zone terremotate.



I maligni potrebbero dire che M5s rappresenta interessi stranieri in Italia e che il Pd ha forti legami con la Francia. Sono solo voci?

Non sono solo voci. È evidente, per esempio, che Luigi Di Maio si è scelto il ministero degli Esteri perché i 5 Stelle hanno origine in Cina. Pechino voleva disturbare l’Italia, comprarsela. E lo sta facendo. La Via della Seta è il modo con cui i cinesi vogliono penetrare in Europa, per prima cosa impadronendosi dell’Italia. E un’operazione imperalista già avviata in Africa e in Asia. Quella francese è invece un’operazione per comandare in Europa.

Con la “complicità” del Pd?

Il legame tra i dem e la Francia è palese dai tempi di Renzi. I francesi vogliono impadronirsi del sistema industriale italiano di natura tecnologica (vedasi Telecom Italia, Fincantieri e in prospettiva Leonardo) e completare la “scalata” a quello bancario (nel tempo è diventata francese Bnl, grazie al decreto popolari ci sono banche più contendibili e ci sono sempre voci su Unicredit e Generali). Quando c’è il Pd al Governo, poi, la Francia appare più benevola della Germania in ambito europeo nei confronti dell’Italia: un motivo ci sarà! Il nostro Paese sotto certi punti di vista sembra quasi una colonia francese. Speriamo di salvare l’Eni, dopo che è stata fatta anche una guerra in Libia per danneggiarla, dalle mire di Total.

Ha citato diverse di quelle che vengono definite “operazioni di mercato”. Qualcosa non la convince al riguardo?

So che sono operazioni di mercato, ma c’è un elemento di disparità da non dimenticare. Noi non potremmo nemmeno immaginare operazioni italiane su imprese d’Oltralpe come quelle che avvengono da parte francese sulle nostre: ci fermerebbero subito. Persino su un’operazione di mercato come la fusione tra Fca e Psa lo Stato francese avrà voce in capitolo, mentre quello italiano no.

Professore, lei vede spiragli per risolvere positivamente la vicenda dell’ex Ilva?

Bisogna essere chiari innanzitutto su un punto. La scelta fatta ai tempi di Calenda di affidare l’ex Ilva ad Arcelor Mittal è stata sbagliata. Perché è evidente che una multinazionale franco-indiana, con capacità produttive già in eccesso, con una tecnologia non superiore alla nostra, non era la soluzione migliore. Si sapeva già che avrebbe ridotto la produzione. Si sarebbe dovuta preferire l’altra cordata con Arvedi e Jindal. Sia perché quest’ultima azienda, indiana, avrebbe usato Taranto per far concorrenza proprio all’altro gruppo indiano (Mittal), sia perché Arvedi ha una tecnologia superiore.

Guardiamo però al futuro. Cosa bisognerebbe fare?

Prima o poi Arcelor Mittal se ne andrà, perché non ha più convenienza a restare. La maggioranza di Governo gli ha quindi offerto il pretesto perfetto. A questo punto bisogna attrezzarsi per cambiare proprietà, con un’altra cordata, partendo da quella che era stata concorrente di Arcelor Mittal, magari separando anche Taranto dagli impianti liguri. Il problema è che questo Governo, come dicevamo all’inizio, non mi sembra preparato per farlo. La politica industriale deve essere gestita da un ministro, non si può immaginare che la faccia il mercato in quest’epoca di grandi imprese, di grandi ristrutturazioni, di monopoli.

(Lorenzo Torrisi)

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