Il lavoro preparatorio, per adesso, procede sotto traccia per la preoccupazione di offrire argomenti alla propaganda salviniana. ma nelle stanze del ministero dell’Interno e del rinato Cnel, con il supporto di qualche articolo degli immancabili esperti dell’immigrazione che si arrogano il ruolo di spiegare agli italiani come funzionano le cose nel mercato del lavoro, l’ipotesi di riaprire in modo significativo le quote di ingresso per motivi di lavoro riservate ai cittadini extracomunitari viene ponderata seriamente. Come quella, che non può mancare nel Paese dei condoni, di varare una sanatoria per i migranti irregolari presenti nel territorio.



La motivazione è sempre la stessa: le imprese, e le famiglie, non trovano italiani/e disponibili a fare certi lavori. In genere quelli faticosi e disagiati, che rappresentano già il 70% di quelli attualmente svolti dagli immigrati regolarmente residenti in Italia.

Ho provato a indagare su quali basi analitiche, e per quali profili professionali, siano fondati tali orientamenti. Zero assoluto, come del resto è sempre avvenuto in materia di programmazione dei nuovi ingressi, nonostante l’ampia disponibilità di informazioni fornite sulla materia dall’Istat e da altre amministrazioni. Utili a orientare le decisioni istituzionali, ma quasi sempre ignorate. Ebbene, cercherò di utilizzare queste informazioni, nei limiti di un articolo di stampa, per rispondere a tre domande:



1) Il nostro mercato del lavoro manifesta davvero un fabbisogno di nuova offerta di lavoro finalizzata a svolgere mansioni che richiedono una bassa qualificazione?

2) Quale impatto potrebbe avere la riapertura delle quote di ingresso per motivi di lavoro nel nostro mercato e sulle condizioni degli immigrati regolarmente residenti?

3) Sulla base dei precedenti storici, è ragionevole ritenere che le modalità  di ingresso con la programmazione di nuove quote possa concretamente offrire risposte agli eventuali nuovi fabbisogni?

Per rispondere a queste domande utilizzeremo le fonti statistiche disponibili, che incorporano anche quelle fornite dall’Istat, dall’Inps, da Eurostat e dal ministero dell’Interno, rielaborate per la redazione dell’unico rapporto permanente disponibile nelle amministrazioni: il rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro italiano pubblicato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.



Alla prima domanda la risposta che viene dai numeri è no. Nel mercato del lavoro italiano esiste un’abbondante disponibilità di manodopera dequalificata e a basso costo. Nell’indagine sull’andamento del mercato del lavoro nel corso del decennio 2008-2018 resa nota dall’Istat si evidenzia che il numero delle persone formalmente in cerca di lavoro o disponibili a cercarlo a determinate condizioni è  aumentato da 4,5 a 5,8 milioni. A questo incremento concorre la quota degli immigrati per circa 600mila unità (300mila disoccupati e altrettanti inattivi disponibili). Questi numeri, che ricomprendono anche oltre 2 milioni di giovani Neet, che non studiano e non lavorano, riguardano per la gran parte persone con un basso livello di competenze.

Le medesime statistiche Istat informano che nel decennio si è verificato un enorme spostamento della domanda di lavoro verso i servizi, in particolare quelli alberghieri, della ristorazione, della logistica e nel lavoro domestico,  che ha avuto come effetto una sostituzione di circa 800mila profili operai, e di  200mila lavoratori con qualifiche medio alte,  con 1,2 milioni di addetti ai servizi con bassa qualificazione e con rapporti di lavoro a termine o con orari ridotti.

Quali implicazioni hanno avuto queste trasformazioni sulle condizioni dei migranti regolarmente residenti? Nel decennio in questione il numero degli occupati immigrati è aumentato di circa 800mila unità (metà delle quali donne nel lavoro domestico), equivalenti alla crescita del numero complessivo dei lavoratori dipendenti. Il recupero degli occupati italiani avviene a partire dal 2015 ma rimane ancora al di sotto (-400mila) rispetto al periodo precedente la crisi. Sono migliorate le condizioni di lavoro e di reddito della popolazione straniera? Decisamente no. Per due evidenze altrettanto documentate. La prima: contrariamente alla vulgata che diffonde l’idea che il blocco delle quote di nuovi ingressi  per motivi di lavoro abbia comportato quello degli immigrati in assoluto, la popolazione straniera regolarmente residente è  aumentata di oltre 2 milioni di persone, comprendendo nel numero quelle che nel frattempo hanno ottenuto la cittadinanza italiana. L’incremento della popolazione, che è avvenuto e continua ad avvenire per effetto delle ricongiunzioni famigliari, delle nascite, della libera circolazione, è  stato largamente superiore per le persone in età di lavoro rispetto alla crescita effettiva degli occupati immigrati,  con la conseguente  diminuzione del tasso di occupazione e del reddito medio pro capite.

La seconda evidenza è da collegare alle trasformazioni del mercato del lavoro. La quasi totalità  delle trasformazioni descritte nella domanda e nell’offerta di lavoro: bassa qualificazione, rapporti di lavoro a termine e a orario ridotto, con rilevanti quote di sotto occupazione e di lavoro sommerso, è  avvenuta nei settori che, insieme all’agricoltura e alle costruzioni, registrano un’elevatissima presenza di lavoratori stranieri. Diversamente dal passato, buona parte degli immigrati in tutto o parzialmente irregolari nel mercato del lavoro, non sono affatto clandestini, ma sono regolarmente soggiornanti.

I dati sull’andamento del reddito degli immigrati sono eloquenti. Nella prima parte degli anni successivi al 2010, sulla base dei dati Istat e Inps, i salari effettivamente percepiti  diminuiscono di oltre il 20%. Progressivamente cresce la povertà  assoluta fino al 30% della popolazione immigrata, e al 66% della stessa considerando anche le persone in condizioni di povertà relativa. Un’incidenza di quattro volte superiore a quella delle famiglie italiane e corrispondente alla quota di incremento della povertà assoluta complessiva avvenuta nel nord Italia. Il 12% dei nuclei familiari risulta privo di redditi da lavoro o di pensione. La metà  dei minori nelle condizioni di povertà  assoluta appartiene alle famiglie immigrate.

Singolare il fatto che l’inversione delle tendenze negative sul reddito e sulla povertà  assoluta degli immigrati, e il concomitante  ritorno alla crescita degli occupati italiani,  siano avvenute a seguito del blocco formale delle nuove quote di ingresso per motivi di lavoro. Solo una coincidenza?

I sostenitori della necessità di riaprire le quote di ingresso potrebbero obiettare che queste analisi possono avere un fondamento, ma nella realtà  molte imprese, e soprattutto  molte famiglie, faticano a trovare una manodopera disponibile. L’obiezione è fondata, se non altro perché la tendenza a sottopagare le prestazioni finisce per scoraggiare un’offerta autoctona di lavoro disponibile a soddisfarle.

Ma riaprire le quote rappresenta una risposta possibile? Ancora una volta la risposta è no. La modalità  italiana di autorizzare gli ingressi con il famoso Clik day (l’apertura dei bandi per la presentazione delle domande di nuovi ingressi collegati a rapporti di lavoro) ha poco a che vedere con le dinamiche reali della domanda e dell’offerta di lavoro, richiede mesi e a volte anni di gestazione per domande di lavoro in settori con elevata mobilità e che dovrebbero essere soddisfatte nel giro di poche settimane. In pratica è una modalità  buona per favorire i rilasci dei permessi di soggiorno, non per soddisfare le esigenze del mercato del lavoro.

E così, infatti, sono state gestite nel passato le quote per nuovi ingressi, e con tanto di prezzario, da organizzazioni colluse di commercialisti, avvocati e intermediari dei Paesi di origine per simulare rapporti di lavoro e pilotare la destinazione delle quote disponibili. Esattamente com’è sempre successo per le sanatorie per i migranti irregolari che sono diventate all’opposto fonte di attrazione di nuovi ingressi. Dinamiche comprovate dalle indagini di polizia  come dagli esiti pratici. L’ultima sanatoria del 2012 per i collaboratori domestici ha regolarizzato per l’80% lavoratori maschi provenienti da comunità di origine che non hanno rilievo nel lavoro domestico, puntualmente spariti dalle anagrafi dell’Inps una volta ottenuto a basso prezzo il permesso di soggiorno.

Nel 2011, prima della drastica riduzione delle quote per il lavoro stagionale, posso personalmente testimoniare che circa 60mila stranieri erano entrati in Italia con apposita autorizzazione senza successivamente recarsi dal datore di lavoro.

Sintesi finale. I grandi numeri non confortano affatto l’esigenza di riaprire il fronte di nuovi ingressi per soddisfare fabbisogni di domanda di lavoro con bassa qualificazione. All’opposto la scelta di promuovere nuove quote di ingresso aggiuntiva a quelle, oltre 200mila in media annua, che avvengono per altre motivazioni e per effetto della libera circolazione, comporterebbe un serio peggioramento delle condizioni di occupabilità e di reddito per i migranti regolarmente residenti e per le milioni di persone italiane con bassa qualificazione.

Giova evidenziare che nel nostro Paese queste discussioni si manifestano in presenza di un tasso di occupazione dei lavoratori italiani inferiore di 10 punti, equivalenti a 3,8 milioni di occupati, rispetto a quello dei lavoratori autoctoni dei grandi paesi di accoglienza europei.

Singolare il fatto che le richieste di riaprire i flussi di ingresso avvengano in coincidenza con l’introduzione del Reddito di cittadinanza, e con politiche attive che offrono ai beneficiari dei sussidi la possibilità di rifiutare legalmente le offerte di lavoro, perché non ritenute congrue, che dovrebbero essere svolte dagli immigrati autorizzando nuovi ingressi. All’opposto queste politiche insane escludono scientemente i migranti regolarmente residenti in condizioni di povertà  e la loro partecipazione alle politiche attive.

Il sociologo Luca Ricolfi nel recente saggio “La società signorile di massa” assimila la condizione dei nostri migranti a quella di un enorme segmento del mercato del lavoro definito con il termine “paraschiavista” per sottolineare la complementarietà esistente tra lo sfruttamento di queste persone e le distorsioni del nostro mercato del lavoro. Impressiona il fatto che tale condizione venga trascurata proprio da coloro che, in particolare nella sinistra politica, si propongono nella veste di paladini dei diritti degli immigrati. Non di rado attribuendo loro un ruolo salvifico per la nostra demografia, per  la sostenibilità delle prestazioni sociali e, ovviamente, per le prospettive dell’intera economia italiana. Un’ipocrisia che fa danni analoghi ai pregiudizi e che contribuisce persino ad  alimentarli.