Tanto tuonò che infine piovve. Così dopo tanto parlare e le fughe in avanti di alcune amministrazioni locali (come la Regione Lombardia), alla fine anche il Governo italiano ha fatto la scelta di adottare un’app di contact tracing per la futura convivenza con il Covid 19; si chiama Immuni e risulta essere conforme al Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing, un approccio definito su scala europea per  conciliare l’obiettivo di contenere l’epidemia e minimizzare i dati e il loro trattamento.



I due capisaldi sono l’utilizzo su base volontaria e niente geolocalizzazione con il ricorso alla tecnologia Bluetooth che, qualora si risultasse positivi all’infezione, permetterà di ricostruire i contatti ravvicinati con altri soggetti e idealmente mappare il contagio. I dati che raccoglierà saranno pseudonimizzati attraverso l’assegnazione di un identificativo apposito associato a ogni utente. L’Autorità Garante ha dato il suo placet all’approccio, ma i dubbi sull’efficacia non sono pochi.



In primo luogo, la volontarietà, che implica il concreto rischio di non raggiungere  la fatidica soglia del 60% della popolazione oltre la quale la soluzione è efficace. Un obiettivo il cui conseguimento potrebbe essere reso difficoltoso anche dagli over 65 che non sempre hanno uno smartphone e in molti casi potrebbero avere difficoltà nell’uso della app se non è decisamente user friendly. Il secondo aspetto critico è dare per scontato che ogni utente si sposti, anche di un paio di metri, avendo sempre con sé il dispositivo. Terza questione è il livello di interoperabilità sui dispositivi dei diversi produttori e i differenti livelli di configurazione necessari a seconda che l’apparecchio sia Apple o Android.



Questo per quanto attiene l’efficacia, poi ci sarebbe da valutare l’impatto in termini di privacy e protezione dei dati (che non mi stancherò mai di ripeterlo: sono due cose distinte). La prima, fosse soltanto perché la scelta di utilizzare l’app è volontaria, appare tutelata. Se vogliamo essere pratici ognuno di noi baratta quotidianamente pezzi della sua vita in cambio di un servizio della società dell’informazione, quindi si tratta di un’altra “transazione”. Per la seconda, che rappresenta il nostro diritto a che i dati siano trattati lecitamente e siano protetti da utilizzi indebiti da parte del soggetto a cui li abbiamo affidati, la questione è un po’ più complessa.

Allo stato attuale è difficile esprimersi senza avere ancora una chiara visione di come saranno strutturati i sistemi e da chi saranno gestiti, ma, soprattutto, considerando che si tratta di una soluzione decentralizzata, secondo quali criteri le autorità sanitarie potranno accedere ai dati (per esempio, per segnalare all’utente che è entrato in contatto con un positivo). Una cosa però è certa, sempre di più il nostro smartphone diventerà forse il bene più prezioso per ognuno di noi. Prima vi abbiamo riversato i nostri segreti più intimi, poi lo abbiamo trasformato nel gestore del nostro denaro, oggi diventa il custode del nostro stato di salute.

Se domani ne perdiamo il controllo, lo smarriamo o peggio ci viene rubato potremmo scoprire che esiste concretamente la possibilità di essere “digitalmente morti”.

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