Difficile, benché non impossibile, che venga approvata, la valutazione di ammissibilità della Proposition de résolution presentata da un folto gruppo di deputati del Nouveau Front Populaire (NFP) sembrerebbe un segno di reazione a quella sorta di blocage istituzionale determinato dalle scelte compiute dal Presidente Macron a partire (almeno) dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale il 9 giugno scorso.
Il NFP, partito che ha conseguito il maggior numero di seggi alle recentissime elezioni politiche, chiede che l’Assemblea nazionale avvii il procedimento per la destituzione del Presidente della Repubblica, previsto dall’art. 68 della costituzione francese e disciplinato da una legge organica del 2014.
Si imputa, dunque, a Macron un inadempimento ai suoi doveri d’ufficio manifestamente incompatibile con l’esercizio del mandato e, in estrema sintesi, di aver posto in essere condotte che concreterebbero una volontà di esercizio individuale della sovranità nazionale, in violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Dubbio legittimo, ancorché tardivo: la stessa proposta ammette che il primo “segno solido” di “tentazione autoritaria” dell’attuale Presidente della Repubblica si poteva già scorgere al momento dello scioglimento.
Si ricorderà che Macron, dopo la débâcle subita alle elezioni europee, da lui stesso letta come manifestazione di sfiducia dei francesi nei suoi riguardi, invece di prenderne atto dimettendosi aveva fatto repentino (e apparentemente inopinato: ma si trattava di un proposito lungamente coltivato) ricorso alla dissolution dell’Assemblea nazionale, alimentando una campagna elettorale orientata ad un uso alternativo del voto: non già la scelta di una maggioranza programmatica, ma una sorta di referendum per la delegittimazione del Rassemblement National.
Operazione solo in parte riuscita, e comunque al grave prezzo della formazione di una coalizione vittoriosa di carattere meramente tattico (e ben poco o nient’affatto strategico).
Sugli effetti di queste scelte, paradossalmente, il Presidente ha fatto leva per un’inedita conduzione della complessa gestione della formazione del nuovo Governo, protraendone i tempi e lasciando in carica un Esecutivo dimissionario, legittimato ancor meno di quanto non lo fosse prima della consultazione popolare, attivo ben oltre la gestione degli affari correnti, persino in materia di politica di bilancio.
Sebbene precaria perché esclusivamente tattica, l’indicazione circa componenti e proporzioni di forze della coalizione era stata già espressa dal corpo elettorale, al secondo turno delle elezioni politiche: alleanza, è vero, non tale da assicurare un sostegno permanente al Governo, ma non diversamente da quanto valeva per i precedenti Esecutivi.
Fondata era dunque la pretesa del NFP che Macron conferisse l’incarico di Primo ministro ad un suo esponente. Ma il Presidente gli ha preferito Michel Barnier.
Un caso senza precedenti nella storia della Quarta e della Quinta Repubblica, si legge nella Proposition.
E qui veniamo appunto all’iniziativa del NFP.
L’art. 8 della Costituzione, nell’attribuire al Presidente il potere di nomina del Primo ministro, non pone alcuna espressa condizione, ma con ogni evidenza assume particolare rilievo la volontà popolare, per come manifestatasi in sede elettorale: è vero che il Governo non è obbligato a chiedere un voto di fiducia dell’Assemblea nazionale (e tuttavia nella gran parte dei casi così è avvenuto), ma è da tener presente che questa può approvare una motion de censure e costringerlo alle dimissioni.
E d’altra parte, pur con le peculiarità del sistema semi-presidenziale francese, resta fermo che il principio di legittimazione è unitario ed è quello democratico.
Eppure, alla luce della specifica dinamica del modello costituzionale transalpino e, ancor più, delle scosse che essa ha subito a causa delle torsioni impresse dalle scelte presidenziali, si è indotti a ritenere, come si è detto, intempestiva la reazione di quei partiti che ritenevano probabilmente di trarre vantaggio da tali alterazioni.
Se l’obiettivo è davvero preservare le garanzie democratiche (oggi contro un rifiuto che il NFP si spinge a definire sostanzialmente in termini di veto di carattere monarchico) sarebbe stato necessario “impugnare” lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, ancor più alla luce di quanto emerso all’indomani della sua disposizione: non già una necessità sopravvenuta, come aveva inizialmente affermato Macron, ma una strategia concepita molto tempo prima.
Non è forse questo un caso di mancanza ai doveri costituzionali?
È certo, in ogni caso, che la costituzione della Quinta Repubblica mostra ancor più il segno di una degenerazione funzionale, sospesa in bilico tra maggioranze democratiche incoerenti e tentazioni “monarchiche” dell’Eliseo.
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