Una volta c’era la febbre del sabato sera, oggi invece va di gran moda la smentita del sabato sera. Ovvero, il più classico dei metodi per garantirsi futures positivi sugli indici a inizio settimana, quando un eventuale tonfo delle quotazioni rischierebbe di innescare una reazione a catena per il resto dei giorni di contrattazione. Questa volta è stato il turno dell’ipotesi di limitazione o divieto delle quotazioni di aziende cinesi alla Borsa americana (e non il delisting di quelle già quotate come scritto da praticamente tutti gli organi di stampa) e, soprattutto, la creazione ad hoc di ostacoli al flusso di investimenti americani in equities del Dragone. Insomma, l’ennesimo stop sulla strada di un riavvicinamento delle parti nel conflitto commerciale fra Cina e Usa. Detto fatto, la voce è stata fatta circolare venerdì nel pomeriggio americano, quando mancavano un paio d’ore alla chiusura di Wall Street. Immediatamente, il Dow Jones ha perso quasi 100 punti. Ma ecco che, a Borsa debitamente chiusa e quando ormai la giornata di sabato stava per fare la sua comparsa sul calendario, il Tesoro Usa faceva filtrare una prima smentita, rafforzata poche ore dopo con una dichiarazione ufficiale. Tornato il sereno, in vista della riapertura degli scambi di ieri.



Ormai, è una strategia consolidata. Lineare, elementare, pavloviana: ma, per ora, ancora molto efficace. È tutto spiegato in questo grafico: paradossalmente, nel mondo del new normal delle Banche centrali come motori immobili, l’unico driver dei mercati – insieme ovviamente ai buybacks – è l’incertezza. Ovvero, il fatto che continui cambi di strategia in seno agli eventi geopolitici più importanti possano far muovere gli algoritmi di trading a loro piacimento. Le macchine saranno anche intelligenti, ma sono pur sempre macchine, reagiscono a stimoli predeterminati e criteri pre-impostati. Da uomini. I quali, quindi, possono creare le condizioni sia per far virare in negativo che in positivo gli indici, determinando flussi di notizie ottimali. Ecco quindi il continuo alternarsi di cali che mantengano alta la tensione su Banche centrali a rischio riottosità rispetto all’ipotesi di maggiore stimolo e poi rimbalzi, guidati da short squeeze colossali e travestiti da acquisti sui minimi, che mantengano gli indici sui loro attuali massimi record. Un gioco da ragazzi. Diabolico ma da ragazzi. E che, soprattutto, finora ha funzionato alla grande.



Adesso, però, arrivano le complicazioni. Primo, la Cina ha due problemi. Il primo sta tutto nell’epidemia di febbre suina che sta falcidiando più del previsto gli allevamenti di maiali e che facendo salire alle stelle il prezzo di quella carne, la più diffusa in assoluto per consumo, soprattutto fra gli strati di popolazione più popolari e meno abbienti. E con un yuan tenuto artificialmente ai minimi proprio per sterilizzare i dazi Usa, il potere d’acquisto cala sempre di più. Avendo già a che fare con la rivolta a Hong Kong e con le bizze geopolitiche di Taiwan, tutto può permettersi Pechino tranne che instabilità sociale interna. Quindi, dopo aver comprato carne di maiale ovunque e addirittura tentato l’esperimento di sostituirla con quella di asino comprata in Kenya, ecco che la realtà ha bussato alla porta: l’unico mercato in grado di soddisfare la richiesta monstre cinese di suino è quello americano. Tocca trattare sugli scambi agricoli, un’arma di ricatto sta quindi venendo giocoforza meno.



Secondo, l’anno prossimo la Cina dovrà affrontare scadenze obbligazionarie corporate interne per 8,6 miliardi di dollari, oltretutto da parte di aziende già oggi così indebitate che il rendimento minimo garantito dai loro bond viaggia attorno al 15%, come mostra questo grafico: anche la carta strategica dello yuan debole ha i mesi – forse le settimane – contati, perché con una moneta svalutata quello stock già enorme diverrebbe insostenibile. E una catena di default aziendali non è un buon biglietto da visita, tanto più che invece Donald Trump avrebbe tutto da guadagnare, visto che quei tremori in seno all’economia cinese comparirebbero in piena campagna elettorale, garantendogli il profilo del vincitore del conflitto commerciale.

Ma anche per l’America, il tempo dei giochini di prestigio sta finendo. Se si arriverà alla finora minacciata implementazione dei dazi, il potere d’acquisto degli americani sarà colpito. Pesantemente. E, in contemporanea, cominceranno i default di massa dei produttori agricoli, soprattutto nel Mid-West e in Florida, strategici per Donald Trump se davvero vorrà tentare la carta delle rielezione. Che fare, quindi? Perché al di là delle criticità politico-economiche che un inasprimento della guerra commerciale avrebbe per entrambi i contendenti, c’è quella suprema a cui far riferimento: buybacks a parte (i quali, però, necessitano di liquidità che comincia a scarseggiare, come mostrano le aste Fed in corso), chi opererà da driver di Wall Street, da qui alle presidenziali? Ce lo dicono questi altri due grafici, i quali svelano il segreto di Pulcinella: la telenovela dell’impeachment, tanto incredibile quanto perfetta. Per due motivi: ha un iter lunghissimo e, anche se finirà in nulla come con Bill Clinton, garantirà mesi di instabilità e continui stop-and-go e colpi di teatro.

E il secondo grafico appare rivelatore, così come lo strano timing scelto per l’esplosione – quasi dal nulla – del caso Ucraina che sembra poter potenzialmente travolgere la Casa Bianca. Ovvero, subito dopo la vittoria della candidata democratica di sinistra, Elizabeth Warren, proprio sul comprimario della vicenda e principale competitor designato nella lotta per la presidenza, Joe Biden, nello Stato “termometro”dell’Iowa. E chi opera sui mercati è certo: se la procedura avrà inizio formale già questa settimana come pare e si arriverà a una guerra politica dichiarata, chi rischia di lasciarci le penne è proprio Joe Biden, visto che al di là delle colpe da dimostrare del figlio in seno ad affari in Ucraina, è l’intera gestione del caso Kiev fatta dall’amministrazione Obama-Clinton a rischiare di finire nel mirino (e sui giornali). E gli analisti sono altresì certi che se l’ex vice-presidente dovesse crollare nei consensi e, magari, addirittura essere obbligato al passo indietro, il fatto che la nomination rischi di finire in pasto a una candidata smaccatamente anti-Wall Street come Elizabeth Warren si tramuterebbe in un assist insperato e risolutore per Donald Trump, trasformato di colpo nel proverbiale “male minore”.

A meno che il Deep State non abbia bisogno proprio di questo, ovvero Biden bruciato e lo spauracchio “socialista” della Warren in campo, per imporre un suo outsider (solo formale, in realtà scelto da tempo) ai Democratici. Magari un nome tanto lontano dalla politica, quanto attraente e altisonante per l’opinione pubblica e la massa più o meno critica, soprattutto in un periodo come questo di ossessione ambientalista. Insomma, due piccioni con una fava: Wall Street troverebbe il sostituto perfetto al conflitto commerciale con la Cina per dominare gli algoritmi e garantirsi valutazioni record, in attesa che la Fed rompa del tutto gli indugi e il Deep State avrebbe campo libero per piazzare al comando un burattino telecomandato o un suo fedelissimo con lo stigma emergenziale dell’Uomo della provvidenza. Per evitare il cataclisma Warren.