A settembre sembrava che le chance che Intel decidesse di aprire un nuovo impianto di chip in Veneto fossero alte. Oggi invece sembra che l’orientamento della multinazionale americana sia cambiato. L’amministratore delegato della società ha dichiarato che “l’Italia è ancora in gioco ma ci sono altri Paesi candidati… decideremo entro l’anno”.
Sul fondo della vicenda ci sono due questioni geopolitiche. La prima è la dipendenza dell’Occidente e dell’intero mercato globale dalle fabbriche di chip di Taiwan, il leader di mercato. È una “questione” perché Taiwan è una delle zone calde della politica internazionale con la Cina che dichiara che non rinuncerà alla riunificazione in nessun caso e mostra le proprie intenzioni con violazioni dello spazio aereo. Dall’altra parte navi da guerra occidentali passano nello stretto di Taiwan per dimostrare la ferma intenzione di difendere l’indipendenza dell’isola. È in questo scenario che prende le mosse la ristrutturazione delle catene di fornitura dei chip; in estrema sintesi, la costruzione di nuovi impianti in territori geopoliticamente sicuri dato che il numero di settori che verrebbe colpito in caso di rottura delle catene esistenti, che partono o passano da Taiwan, sarebbe sterminato.
Il settore di chip è l’esempio massimo dei fenomeni in corso. La Cina non può più essere “la fabbrica del mondo” e sicuramente non può più essere la fabbrica dell’Occidente; non per una questione di competitività, ma per le crescenti tensioni internazionali che vedono il Paese asiatico saldamente al fianco della Russia anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
La partita della ristrutturazione delle catene di fornitura è enorme. C’è spazio per reindustrializzare intere regioni, interi Stati e per impattare economie grandi come l’India con il suo miliardo di abitanti. La competizione in atto per intercettare questi investimenti è serrata. Un impianto da centinaia o, più spesso, miliardi di euro diventa un motore di crescita per decenni. Una volta che si è spesa una cifra a dieci cifre non si torna indietro dopo qualche trimestre e in aggiunta l’impianto diventa un volano per altre attività. Gli Stati sono in prima fila in questa gara.
L’Inflation reduction act americano con cui si incentiva la produzione nazionale, fatto tra l’altro sei mesi dopo l’inizio della crisi energetica europea, è solo uno dei tanti esempi. C’è più di questo. Perché gli sforzi degli Stati per intercettare gli investimenti privati in una fase di grande dinamismo impatta anche i sistemi industriali che sono dentro l’Occidente come quello europeo. Due giorni fa Macron ha parlato di rischio di deindustrializzazione dell’Europa dopo l’introduzione dell’Inflation reduction act americano. Le aziende indirizzano gli investimenti verso i sistemi più competitivi, per tasse, costi energetici, amministrazione e incentivi fiscali offerti. Non c’è differenza se la rilocazione di un impianto è dalla Cina piuttosto che da un Paese europeo.
L’Europa reagisce smontando i vincoli agli aiuti di stato perché, con i costi energetici impazziti, non avere questa leva porterebbe al declino strutturale. La domanda quindi è inevitabile: cosa succede se un Paese europeo è in grado di offrire quegli aiuti che l’Italia non può offrire?
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