La tragica vicenda del piccolo industriale napoletano che si è tolto la vita impiccandosi all’interno del proprio capannone è stata trattata dai media con insolita cautela. Merito anche della famiglia che fin dal primo momento ha chiesto di mettere la sordina all’accaduto senza giungere a conclusioni affrettate. Non c’è dubbio che il gesto di Antonio Nogara, 57 anni, specializzato in allestimenti per uffici e negozi, sia stato indotto dalla crisi economica conseguente al coronavirus: un biglietto ai congiunti ne fa espresso riferimento. Ma l’uomo soffriva da tempo di depressione ed è certo che anche questo abbia contato.
Una condizione psicologia di partenza fragile non ha retto al peso di nuove e impreviste preoccupazioni per un futuro difficile da reggere e ancor più da leggere. Nessuno può sapere con certezza che cosa passi per la mente di chi si accinge a compiere scelte così estreme. Ma possiamo immaginarlo. Il film della tua esistenza che ti passa davanti in forme distorte, la pesantezza del cuore per tutto quello che avresti voluto fare e non ci sei riuscito, le difficoltà di ogni giorno che ti appaiono come ostacoli insormontabili: non vedi via d’uscita. Per te non c’è via d’uscita se non quella definitiva.
La sorte di Antonio – un artigiano bravo, competente, apprezzato e amato da tutti quelli che l’hanno conosciuto e si sono rivolti alla sua abilità – si è consumata all’interno del dramma collettivo che il mondo sta vivendo per l’aggressività di un morbo che sta mietendo vittime tra le persone e le imprese.
Nessuno è dunque responsabile per questa morte solitaria e disperata che si aggiunge alle decine di migliaia che ci siamo abituati a contare nei telegiornali della sera? Dobbiamo considerarla come un effetto collaterale e in fondo possibile della pandemia? Un episodio spiacevole da mettere nel conto?
Le circostanze attenuanti, come si dice nel gergo tecnico, non devono essere un alibi per nessuno. Il fatto che Nogara fosse malato – o lo fosse stato con strascichi sulla salute ancora presenti – non può cancellare le responsabilità di chi avrebbe potuto e dovuto infondere coraggio e diffondere certezze.
Solo chi fa impresa può testimoniare sulla forza del legame che si viene a creare con la propria azienda, con dipendenti collaboratori e fornitori, con l’ambiente circostante. Una forza assoluta e speciale, che non conosce e ammette limiti. E che proprio per questo conduce spesso a commettere errori fatali.
Non si possono promettere interventi tempestivi se poi non si è in grado di assicurarli. Non si può dire che nessuno perderà il posto di lavoro e il reddito a causa del morbo se non si è nella facoltà di mantenere la parola. Non si può giocare sulla resilienza degli italiani se manca un’idea di futuro.
Lo stato d’animo che ha condotto Antonio Nogara a consegnarsi nelle braccia della morte – quasi a provare sollievo nell’abbandonare un presente non più sopportabile – è assai più diffuso di quanto si possa immaginare. E non conta se per alcuni la soglia della resistenza batte quella della sofferenza.
Tutti coloro – nel Governo, in politica, tra gli esperti – che tengono a far sapere tutti i giorni quanto abbiano a cuore la salute dei cittadini imponendo divieti dovrebbero riflettere sulla propria (in)capacità di azione. Perché la loro inerzia e i cavilli che giustificano le lungaggini possono essere più letali del Covid.