In questi giorni ricorre il decennale di un evento che sottotraccia ha segnato una tappa importante della tanto discussa integrazione europea. Per una volta non si tratta di un trattato o di un patto che, come spesso accade, mostra oggi gli effetti infausti di clausole firmate allora con molto entusiasmo. L’anniversario riguarda il mercato obbligazionario europeo, il principale canale di accesso delle industrie ai capitali di debito. Dal 2001 esso è denominato in una sola valuta per tutti o quasi, l’euro. Dieci anni fa, a cavallo tra settembre e ottobre 2002, le emissioni raggiungevano per la prima volta dalla moneta unica i 75 miliardi di euro e allontanavano così le paure di quanti si mostravano scettici sull’aggregazione in un mercato unico di economie, e paesi, molto diversi. Oggi, dieci candeline dopo, vale la pena valutare lo stato di salute del mercato obbligazionario per rispondere, o almeno tentare, a una domanda tutt’altro che scontata: l’industria europea ha tratto beneficio dall’unione monetaria?
Per farlo, occorre costruire, come va di moda tra gli analisti finanziari, un indice di riferimento su misura. Prendiamo le prime 500 industrie europee per capitalizzazione e raggruppiamole in un indice dal nome non troppo fantasioso di IE500 (Industrie Europee 500). Escludendo le società finanziarie (ossia banche e assicurazioni, “bestie strane”), i restanti membri di IE500 totalizzano una capitalizzazione pari a 6800 miliardi di euro ai valori di chiusura di pochi giorni fa. La sola Royal Dutch Shell ha un patrimonio di circa 174 miliardi di euro; seguono a ruota Nestlè (160 miliardi), i grandi nomi dell’industria farmaceutica svizzera, Novartis e Roche, il gigante belga delle bevande Anheuser-Bush (produttore delle birre Corona, Beck’s, Stella Artois e Budweiser). Poi ancora Vodafone, BP, Total, le biotecnologiche Sanofi e GlaxoSmithkline, la British American Tobacco, Siemens, Volkswagen, Eni e BASF e molti altri nomi che direttamente o attraverso i marchi di proprietà rientrano ogni giorno tra le nostre spese. Tra le industrie italiane, si segnalano anche Enel, Saipem, Telecom Italia, Luxottica, Fiat auto e industrial, Atlantia, Terna, Pirelli e Campari, per un totale di ventinove nomi. C’è anche una nutrita schiera – sono 47 – di società scandinave quali Novo Nordisk, Statoil, Volvo, Carlsberg, Tele2…
Qualcuno obbietterà che i colossi elvetici, britannici e scandinavi – in quest’ultima regione fa eccezione la Finlandia, rappresentata nell’indice da Kone e Nokia tra gli altri – non fanno parte della zona euro. Eppure per queste società l’obbligazionario in euro svolge un ruolo di primaria importanza: insieme, la compagine non-euro ha emesso negli ultimi dodici mesi 214 bond per più di 115 miliardi di euro, e da questa rilevazione già si direbbe che il mercato del debito sia in anticipo sul calendario di Bruxelles (nel grafico a fondo pagina è evidenziato l’apporto, in termine, di capitalizzazione, di ogni Paese a IE500).
Per dare un’idea della taglia di IE500, è utile dare una sbirciata sull’altra sponda dell’Atlantico. L’omologo statunitense del nostro indice, l’SP500, una volta epurato da banche e assicurazioni, capitalizza l’equivalente in dollari di 9.000 miliardi di euro (sempre alla chiusura di qualche giorno fa), un terzo in più dell’IE500, e può contare su nomi quali Apple, Exxon Mobil, Microsoft, Google, Wal-Mart, General Electric, IBM…
Capitalizzazione IE500 per Paese europeo
In termini di crescita, l’SP500 è quasi raddoppiato in dieci anni, mentre l’IE500 da quell’ottobre del 2002 ha visto salire la propria capitalizzazione borsistica di 49 punti, ossia il 37% in più. Numeri abbastanza in linea con le attese: le industrie a stelle e strisce sanno crescere, cadono (come durante il crollo del settembre 2009) e si rialzano, mentre quelle europee sono sì più refrattarie alle grande oscillazioni, ma quando si tratta di crescere, arrancano. Le ragioni di questa differenza diventano più chiare quando si passano in rassegna i debiti obbligazionari.
Definiamo “investment grade” (IG) quelle industrie con un rating superiore alla BBB-. Escludendo sempre banche e assicurazioni, IE500 contiene 164 nomi IG, mentre 230 titoli sono relegati in zona non-IG. Trai settori, beni di consumo e produzioni industriali la fanno da padroni su entrambi i versanti del merito creditizio, ma in termini di margini la media è piuttosto omogenea in tutte le attività: un’industria IG si finanzia mediamente intorno all’1,59%, mentre tra i non-IG il costo del debito si aggira sul 2,26% (per gli appassionati di econometria, segnalo che qui come altrove si tratta di medie ponderate per gli importi).
Oltreoceano, SP500 contiene la bellezza di 308 compagnie IG, quattro delle quali possono fregiarsi della tripla AAA (nessun’industria IE500 può fare altrettanto): esse sono Exxon Mobil, Microsoft, Johnson & Johnson, e Automatica Data Processing (quest’ultima forse è poco conosciuta, ma è un colosso da 50 mila impiegati che offre macchinari e servizi alle aziende, dai sistemi per timbrare il cartellino ai calcoli delle buste paga). Per l’aneddotica: Apple, la più grande azienda statunitense, ha cassa a sufficienza per non dover ricorrere al debito e quindi non ha né costi di finanziamento, né rating creditizio.
Abbastanza significativa la ripartizione per settori: l’informatica conta 62 aziende, più di quanto totalizzi la produzione industriale, ferma a 52 imprese, mentre energia e salute (farmaceutico, biotecnologico, macchinari medici) rappresentano da soli quasi il 20% dei nomi, più del doppio di quanto avviene nell’IE500.
Le sorprese più grandi arrivano dal costo del debito. Le imprese IG si finanziano in media all’1,54% in linea con i cugini europei, mentre le non-IG pagano un tasso medio dell’1,67%, oltre mezzo punto sotto la rappresentativa non-IG europea e curiosamente vicino al tasso IG dell’eurozona. Il motivo è più chiaro distribuendo il debito per scadenza: le non-IG americane concentrano la raccolta di debito sul breve e medio termine, dove riescono a toccare tassi relativamente vantaggiosi e più congeniali a un profilo di rischio sotto la BBB-. Spesso si tratta di società attive nel settore delle telecomunicazioni, dei media e dell’informatica, insieme a industrie dell’estrazione mineraria. Tutte aziende che in senso più o meno figurato potrebbero imbattersi all’improvviso in una miniera d’oro. Le non-IG europee, invece, si allungano su tutta la curva, indebitandosi anche a brevissimo e lunghissimo termine e toccando quindi quei capitali che costano di più. Questo avviene perché tra i settori troviamo un po’ di tutto, attività che per natura sono ad alto rischio così come altre che di speculativo non dovrebbero avere nulla (catene di alberghi, automotive, materiali elettronici, costruzioni, ecc.). Molte di queste sono accomunate da una situazione dei conti tutt’altro che rosea e il mercato obbligazionario è riuscito a garantire loro un afflusso costante di capitali. Ma è sufficiente?
L’unione monetaria ha permesso di creare un solido mercato del debito, frequentato dai grandi sottoscrittori internazionali, ma non riesce ancora – e non può farlo da sola – a portare la maggior parte delle grandi industrie europee sulla stabilità dell’investment grade. Sull’altra sponda dell’Atlantico, le aziende SP500 cos’hanno in più? Hanno una sola valuta, il biglietto verde, ma sono anche accomunate da un’unica politica fiscale e industriale e all’occorrenza sono sostenute da aiuti governativi autorizzati in poche sedute del Congresso. In due parole, questo sostegno si chiama Stati Uniti.