Anche la Banca Mondiale ha certificato che il livello di imposizione fiscale complessiva in Italia è tra i più alti al mondo. Per le imprese, la somma tra tasse vere e proprie e contributi sul lavoro raggiunge addirittura il 68,5%; più di Francia (65,7%), Germania (46,7%) e decisamente più della Gran Bretagna (37,3%); Paesi dove, tuttavia, è assente l’aggravante nostrana di una burocrazia ostile al cittadino, a causa della quale un’azienda deve spendere mediamente 285 ore l’anno solo per pagare i tributi, il 46% in più della media Ocse (195 ore) e il 75% in più dei Paesi Ue. Persino il Fmi, a questo punto, ha chiesto all’Italia di provvedere, abbassando anzitutto, le tasse sul lavoro. Gaetano Troina, professore di Economia aziendale presso l’Università di Roma Tre, spiega a ilSussidiario.net come leggere questi dati. «A livello di prelievo fiscale – afferma -, va detto che oltre a essere il Paese più tartassato, siamo anche quello con l’evasione più alta. Se non si interverrà in tal senso, quindi, diminuire le tasse sarà impossibile. Tanto più che l’attuale livello impositivo, a oggi, ha scongiurato il rischio di finire come la Grecia». Detto questo, l’imposizione tributaria così elevata grava sulle imprese in maniera duplice. «Essa, infatti, è altissima anche per le famiglie. Le quali, a loro volta, sono costrette a fare una selezione dei propri consumi; e, se si abbassano i consumi, si abbassa contestualmente la produzione. Le imprese, quindi, oltre a far fronte alla tassazione elevata si trovano con ricavi minori». Gli effetti già li vediamo: «Quando parliamo di imprese, dobbiamo pensare che anche i bottegai, o piccoli negozi sotto casa sono tali; e quanti hanno chiuso perché non ce la fanno più, strozzati dal fisco? Mi domando se, attualmente, esistano alternative; credo che l’unica sia quella di intervenire sui grandi patrimoni. Su molti dei quali, d’altro canto, pesa l’evasione fiscale».
Il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani ha fatto sapere che la delega fiscale non sarà una vera e propria riforma. Quelle, secondo lui, si fanno una volta, ogni cent’anni. Eppure, secondo Ugo Arrigo, una riforma si potrebbe fare, eccome. Nel segno dell’equità. Abbassando le aliquote più basse, ma facendole pagare a tutti; eliminando, quindi, una serie eccessiva di incongruenze e squilibri tali per cui una nutrita platea di contribuenti gode di veri e propri benefici fiscali. «Credo che sia meglio evitare riforme di questo genere in periodi di crisi, quando le preoccupazioni del momento inficerebbero qualunque provvedimento; oltretutto, interventi di questo tipo, dovrebbero essere preceduti da una riforma generale dello Stato. Sarebbe il caso, quindi, per intenderci, che l’eliminazione delle Province o la riduzione del numero dei consiglieri regionali venissero realmente portate a compimento». D’altro canto, secondo Troina, procedere a un riordino degli incentivi non sarebbe così semplice.
«Per verificare in maniera sistematica dove e se vi siano degli abusi, occorrerebbe un sistema di controlli serio e strutturato. Ma i controlli costano». Non è detto, infine, che abbassare le tasse sul lavoro sia la priorità assoluta. «Sul fatto che sia necessario, siamo d’accordo. Tuttavia, molte famiglie che prima si collocavano nella fascia medio-bassa, oggi sono ben oltre la soglia della povertà. Credo che l’emergenza, quindi, consista nell’abbassare le loro aliquote minime. Tanto più che concedendole un po’ di respiro, si rilancerebbero i consumi».
(Paolo Nessi)