Tempi duri per chi taglia il legno in Italia. Oggi le segherie sono costrette a giocare al pareggio e molte sono in passivo e rischiano di dover chiudere perché schiacciate da un doppio abbraccio mortale. Da un lato, infatti, ci sono i costi sempre più elevati dell’elettricità, dei trasporti e del tronco. Dall’altro c’è la concorrenza delle segherie austriache che abbassano sempre più i prezzi di vendita nella speranza di eliminare i competitor. “Una lotta al massacro” che non ha prospettiva secondo Massimo Cosseta di Mamo Legnami, la più grande segheria d’Italia con sede ad Tonco, in provincia di Asti, Piemonte. Continuare ad abbassare i prezzi infatti può funzionare solo come palliativo per dilungare l’agonia. L’impresa di Cosseta compra il legno dalla Francia e, una volta lavorato, lo distribuisce sui mercati di tutta Italia. Diversi i prodotti: si va dai travi al pretagliato lamellare passando per materiali da carpenteria e falegnameria. A Cosseta abbiamo chiesto di raccontarci come è organizzata la produzione in Mamo Legnami e di spiegarci che cosa, in questo frangente, rende così difficile continuare a mandare avanti aziende che spesso hanno una tradizione decennale alle spalle ma che faticano a continuare la produzione.



Ci hanno detto che siete la più grande segheria italiana. È vero?

Se lo dicono gli altri… Vede, la segheria tipo italiana che lavora per carpenteria e ditte di imballaggio ha una sola linea di segatronchi e una quindicina di dipendenti al massimo. Noi invece abbiamo tre linee di segatronchi, e penso che come la nostra non ce ne siano altre in Italia. Inoltre, di solito, una tradizionale segheria a gestione familiare lavora prevalentemente su un unico tipo di legno reperito nella regione di appartenenza e si rivolge a un mercato locale. Le nostre tre linee, invece, fanno due turni ciascuna e producono per servire l’intero mercato italiano.



Quanti e quali tronchi lavorate?

Abbiamo cinque essenze: abete, larice, douglasia, rovere e castagno. Il 90% li importiamo dalla Francia, il resto provengono dal Piemonte. Dalla Svizzera, infatti, non si può comprare per via del cambio sfavorevole. Austria e Germania, invece, non hanno né il rovere, né il castagno e quanto a resinosi scarseggiano, tanto che sono loro a comprarli in Italia. Così, essendo a poco più di 100 km dal confine, logisticamente e per i trasporti, ci conviene comprare dalla Francia.

Che prodotti realizzate? Sono cambiati nel corso degli anni?

La nostra è una segheria di famiglia che ha appena compiuto 40 anni e io ho iniziato 25 anni fa. All’epoca c’erano quindici dipendenti e non si facevano i turni. Poi ci siamo sviluppati. Dapprima passando a due linee di segatronchi e poi a tre con doppi turni. Abbiamo rilevato inoltre due filiali per diversificare le lavorazioni. A Tonco, la sede centrale, è concentrata la grossa produzione: lì continuiamo con la travatura in legno massiccio lavorando sulle tre linee. Ad Asti, invece, si produce il pretagliato sui travi lamellari e massicci. Mentre a Montichiaro realizziamo capriate per tetti e lavorazioni per falegnameria, in modo da poter offrire un servizio più completo ai magazzini che ordinano da tutta Italia.



Una produzione molto diversificata…

Già e questo ci permette di lavorare anche oggi, senza ridurre i volumi e senza dover fare ricorso alla cassa integrazione. Ciò è possibile proprio perché facciamo molte cose e quando non tira un settore, tira l’altro.

Quale è la cosa più particolare che producete?

Forse la travatura di rovere che fanno in pochissimi e che sta andando bene in tutte le regioni d’Italia. Serve per le coperture di case e tetti. E noi arriviamo dove gli altri non arrivano: disponiamo, infatti, di misure fino a 14 metri di lunghezza, mentre altre segherie possono segare fino a 9/10 metri massimo per ragioni di spazio o per come è progettata la linea.

 

Avete investimenti in programma?

 

Abbiamo appena comprato un nuovo carro per la segatronchi che monteremo durante le vacanze di Natale e che va in sostituzione del più vecchio. In questi giorni poi stiamo valutando se mettere una caldaia a biomassa per fare ecogenerazione. Così potremmo avere sia l’acqua calda per gli essicati e il riscaldamento, sia energia elettrica da vendere. Anche se già non usiamo né gas, né petrolio per il riscaldamento e per far funzionare i forni perché ci serviamo delle cortecce che cascano nel piazzale.

 

Come vede il mercato del legno tagliato da qui a un anno?

 

Le previsioni io non le so fare. E non credo ai “futurologhi”. Nessuno può sapere cosa succederà domani. Però quello che succede oggi è che le segherie – tutte ma soprattutto quelle austriache – stanno facendo un grosso errore: continuano ad abbassare i prezzi per poter lavorare. Ma non ha senso. È una lotta al massacro. Infatti, molte segherie stanno chiudendo. Sia chiaro, quasi tutte hanno i bilanci in passivo perché nessuno sta guadagnando e le spese sono troppe. Ma abbassare i prezzi non serve perché, se uno deve rifare un tetto, lo fa lo stesso anche se gli costa 10 o 20 euro in più al metro cubo. Bisognerebbe invece che tutti mantenessero i prezzi: se li abbassano non è che ottengono molto di più, perché il lavoro è quello che è, non si inventa. Semplicemente così facendo mettono in difficoltà tutti. Chi abbassa i prezzi lavora per un po’ di più, ma il problema poi si ripresenta.

 

Quali sono le voci di spesa insostenibili?

 

Senza considerare che anche il tronco sta aumentando, sono soprattutto il costo dei trasporti e dell’energia elettrica.

 

Davvero è così pesante il costo dell’energia elettrica?

 

Certo: io spendo 27 mila euro al mese di corrente. In Francia ne spenderei 9 mila, con un risparmio a fine anno di circa 200 mila euro. Mica poco.

 

Potesse rivolgersi al governo cosa chiederebbe?

Ci sarebbero mille cose da chiedere.

 

Ne scelga tre.

 

Intanto, quando uno perde dei soldi perché vende a un cliente che non riesce o non vuole pagare, quello è fregato per i 4/5 dal cliente e per 1/5 dallo Stato. Perché se uno fattura 10 mila euro a un cliente che non paga si perde anche 2 mila euro e rotti di Iva, che per recuperarli ci vogliono anni. E per un imprenditore, che mette in conto, a meno che pretenda di farsi pagare tutto subito, di fatturare 70/80 mila euro in meno l’anno per via dei mancati pagamenti, doverne dare anche 20 mila allo Stato è troppo. Bisogna fare qualcosa. In secondo luogo chiederei di ridurre i costi dell’energia elettrica che sono troppo alti per le imprese che sono energivore. E terzo, chiederei di sprecare meno nelle spese per usare le risorse per gli imprenditori da sempre in regola con i versamenti e per maggiori contributi a fondo perduto utili per cambiare i macchinari.

 

(Matteo Rigamonti)