È maledettamente difficile, per il governo Monti, districarsi correttamente e utilmente dall’“affaire” Finmeccanica. Già, perché l’affiorare a scaglioni delle accuse di Lorenzo Borgogni, ex braccio destro-plenipotenziario dell’ex lìder maximo del gruppo, Piefrancesco Guarguaglini, getta ogni mese un nuovo lampo di discredito su tutta la governance del gruppo e sul suo attuale vertice: sia l’incolore Giuseppe Orsi, da pochi mesi nominato presidente e amministratore delegato proprio in sostituzione di Guarguaglini, sia fatalmente il pur universalmente stimato direttore generale Alessandro Pansa, che per molti anni era stato direttore finanziario nel corso della precedente gestione.



Come sempre quando (cioè…sempre) le Procure conducono le loro inchieste in pubblico, sfornando continui e confusi capi d’accusa supportati da lunghi stralci di intercettazioni e privi del contrappeso delle difese, l’opinione pubblica non può che convincersi dell’idea generale che gli accusati siano tutti ladri, salvo sfumature destinate a essere precisate – se e quando – anni e anni dopo, in sede dibattimentale, a reputazioni irrimediabilmente frantumate.



In un quadro simile, così delegittimato, è gioco facile per i concorrenti e gli antagonisti di Finmeccanica infilarsi soffiando via opportunità di business. È gioco facile per i partner d’affari del gruppo contrastare le mosse di un’azienda sotto inchiesta. È gioco facile per i (troppo pochi) epurati della gestione precedente, vendicarsi, diffondendo veleni contro quella nuova. Perché per il governo è difficile agire? Perché l’unico gesto che sfamerebbe i talebani giustizialisti sarebbe un nuovo azzeramento del vertice, a neanche un anno dalle dimissioni di Guarguaglini: mandar via anche Orsi, indagato ovviamente anche lui per alcune delle accuse vomitate da Borgogni e in parte riscontrate (ma in parte no) dalle Procure. Indagato, sia chiaro, non condannato.



Buttare fuori Orsi non significherebbe implicitamente risolvere il problema connesso alle mille aderenze, complicità e strascichi lasciati dal malaffare nel “corpaccione” del gruppo. Non significherebbe trovare automaticamente un’alternativa migliore. Rappresenterebbe certo un segnale di discontinuità, se è questo che i mercati desiderano: ma è lecito che un governo si lasci dettare tempi e modi delle sue scelte strategiche da Procure che troppe volte negli ultimi vent’anni hanno dimostrato di seguire teoremi privi di qualunque aderenza con la realtà? È giusto che un’iscrizione nel registro degli indagati assuma vigore di condanna preventiva e comporti l’allontanamento di un manager che deve godere della presunzione d’innocenza dalle funzione che svolge?

Se passasse questo teorema, gli stessi cantori della necessità di un’immagine adamantina per chi guida le aziende pubbliche potrebbero trovarsi domattina indagati ed espulsi dalle loro funzioni per il ghiribizzo infondato di uno dei purtroppo molti inquirenti incapaci che la cronaca giudiziaria ci ha fatto conoscere negli anni.

C’è poi da aggiungere un altro concetto di carattere generale, che le anime pure del rigore morale un tanto a riga non ammettono di riconoscere: che cioè un gruppo come Finmeccanica, attivo in tutto il mondo in settori strategici come difesa ed elettronica militare, ha per clienti i governi, e per vivere “non può non” soggiacere alle istanze illecite di alcuni di questi governi. Ovvero: o vende armi solo ai Paesi Nato (ammesso che questi ultimi siano immacolati, ed è tutto da dimostrare) oppure se gliele compra uno staterello personale, amministrato da gente corrotta o magari da un principe attorniato da una corte di affaristi, la stecca viene puntualmente chiesta e viene pagata regolarmente da tutti i concorrenti del gruppo, che naturalmente poi smentiscono di averla pagata ma la pagano. Solo le anime belle e instupidite dalla retorica affermano il contrario.

E del resto, come pensare che il mercato delle armi – mercato di morte – osservi regole etiche? I governi fingono di darsele, concordano livelli accettabili di criminalità internazionale, ma la guerra è sempre orrore, sangue e crimine, e il mercato delle armi che la rende possibile, ancorché regolato, è comunque un mercato gestito da infami con regole infami e corruzione infame permanente. Il Pentagono e gli “stati canaglia”, formalismi istituzionali a parte, hanno differenze minime tra loro.

In questa turpe pratica del commercio delle armi, si infiltrano fatalmente affaristi di ogni specie, una sentina di gente immonda – tra i quali, e speriamo lo si appuri e li si condanni, molti politici italiani – che approfitta della corruzione internazionale per sfamare la propria. Ma l’obiettivo non può essere, per lo Stato italiano – se fosse uno Stato etico – vendere armi senza pagare stecche ai governi-clienti che le chiedono, l’obiettivo dovrebbe essere non vendere più armi a nessuno.

Quanto a Orsi, su lui si proiettano due ombre: l’amicizia con Roberto Maroni, leader della Lega, che Orsi ha sempre descritto come una “relazione istituzionale” dovuta per chi gestiva, come ha gestito lui, una grandissima azienda nel varesotto, ma che spunta invece qua e là come linea-guida di un patronage politico costante. Di per sé, per un manager pubblico, raccogliere la stima di un politico di governo non è certo un reato, a patto però che non sia minimamente in dubbio la natura puramente ideologica e non “di scambio” di questa stima. Finora Orsi ha replicato colpo su colpo alle accuse e alle insinuazioni. Poi ha smesso.

Errore: continui, se ha cose da dire. In un Paese contraddistinto da un vomitevole “spread” giudiziario con il mondo civile, dove i processi sono inammissibilmente lenti e la gogna mediatica ha sostituito a tutti gli effetti le sentenze, l’opinione pubblica si forma le sue idee sulla base delle fughe di notizie consentite, se non orchestrate, dalle Procure. Le Procure lasciano che trapelino le accuse, o addirittura le divulgano; le difese devono avere il diritto, e dovrebbero trovare lo spazio mediatico, di confutarle. Se Orsi ha delle cose da dire, le dica e non persista in questa linea taciturna che gli sta scavando la fossa.

Infine, lasci parlare i numeri, se sa e se può: sull’andamento del gruppo come verrà alla luce con l’imminente relazione trimestrale al 30 settembre si giocherà molto della sua residua credibilità.