“Finmeccanica rappresenta una delle più importanti realtà industriali del nostro Paese con un patrimonio tecnologico, umano e professionale di grande valore. Essa dà direttamente lavoro a circa 70.000 persone di cui 43.000 in Italia, con un indotto di oltre 100.000 lavoratori. Il costante attacco mediatico a cui è sottoposta rischia di comprometterne la capacità competitiva e la reputazione internazionale”. Parola di Pierluigi Ceccardi, presidente di Federmeccanica, sceso ieri in campo a difesa di quel che resta dell’immagine della più importante realtà tecnologica di casa nostra.



Parole di buon senso, che però suscitano una curiosità: perché Ceccardi e non il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi? Con tutto il rispetto possibile per il numero uno degli industriali meccanici (organo di categoria di cui Finmeccanica è senz’altro il primo contribuente dopo l’uscita di Fiat) quel che accade attorno alla holding pubblica della Difesa ha senz’altro un valore politico generale, di cui deve farsi carico la rappresentanza degli industriali al massimo livello. Mica per intromettersi nelle indagini, per carità: la giustizia deve fare il suo corso nei confronti di corrotti e di corruttori. Ma è importante che tutti i soggetti evitino di gettare via il bambino con l’acqua sporca: in tutti i Paesi che dispongono di un’industria della Difesa di dimensioni internazionali, ci sono stati scandali legati a mazzette e a episodi di corruzione del mondo politico.



Ovunque si è posto il problema di una difficile quadratura del cerchio: da una parte fare pulizia, dall’altra non compromettere l’efficienza della macchina aziendale. Qualche volta l’operazione ha avuto successo, con beneficio per la reputazione del Paese e dell’azienda, talaltra no. Ma in qualche maniera gli altri ci hanno provato. Al contrario, dalle nostre parti prevale la voglia di far del male al nemico interno. Di questo passo è ben difficile che esista ancora uno Stato al mondo che voglia affidare una commessa per un elicottero all’azienda italiana che pure, come ha dimostrato la gara per il Force One della Casa Bianca, qualche prodotto di qualità deve pure avere in catalogo.



È da capire la cautela del governo a sfiorare in qualsiasi modo il dossier: dietro ogni poltrona del gruppo pubblico, a giudicare dal mattinale delle rivelazioni via stampa, c’è la mano di qualche politico dell’ex maggioranza. O le aspirazioni di qualche aspirante ministro in arrivo dall’opposizione. Di qui la sensazione che una mossa azzardata possa far grossi danni, anche di mettere a rischio gli ultimi spiccioli di riforma consentiti al governo Monti. I siluri che volano bassi dalle parti della holding, poi, possono colpire in ogni direzione, più dei temuti razzi dell’atomica di Teheran. Ne sa qualcosa Vittorio Grilli, colpito dagli scoop sulla presunta consulenza (poi smentita) di Finmeccanica alla moglie.

È comprensibile la volontà di stare alla larga dalla fabbrica del fango. Ma è un segreto di Pulcinella che il presidente e ad Giuseppe Orsi non gode della fiducia del ministro, a differenza del direttore generale Alessandro Pansa, generando una curiosa e nociva realtà da separati in casa. Emblematica la trattativa per la cessione di Ansaldo Energia: da una parte il presidente che tratta con Siemens; dall’altra il direttore generale, che fa parte del cda del Fondo per lo Sviluppo controllato dalla Cdp, che lavora alla cordata italiana per rilevare il 30% della società lasciando il 25% in capo alla holding. Roba da vertice di partito, più che da holding industriale . Ma niente, in quanto a ridicolo, dell’annullamento, all’ultimo, della riunione strategica sul futuro del gruppo indetta dopo l’annuncio delle nozze (poi sfumate) tra la franco-tedesca Eads e l’inglese Bae. Quasi che, in mezzo a tanta confusione, fosse sensato mettersi a un tavolo per studiare un piano d’azione per evitare l’isolamento di Finmeccanica. Meglio non far nulla piuttosto che ritrovarsi a gestire trattative in parallelo con russi, cinesi, brasiliani e chissà chi altro.

La tempesta giudiziaria, insomma, cade in un contesto che supera i confini dell’assurdo. E a cui il governo, con la sua inazione, ha contribuito non poco. Un comportamento tanto più colpevole se si pensa che lo Stato non è solo il primo azionista della società quotata, ma anche il primo committente civile (attraverso le Ferrovie) e militare del gruppo.

Purtroppo, si ha la sensazione che Finmeccanica ormai non sia più considerata un’impresa, quanto un dossier scomodo da cui stare alla larga per le ricadute giudiziarie che può avere. Non caso, viene sempre più spesso tirato in ballo il paragone con la maxi-tangente Enimont, punto culminante del processo alla prima Repubblica. Un paragone sinistro: dopo Enimont l’Italia è scomparsa dalla scena internazionale della chimica, salvo poche lodevoli eccezioni tra cui spicca la Mapei di Squinzi, multinazionale tascabile di successo. Sarebbe un bel guaio se la storia si ripetesse in Finmeccanica, il principale driver della tecnologia italiana.

Lo capiscano gli stakeholders (sindacati in testa). Lo capisca anche la magistratura: in questi casi il silenzio è d’oro. Per una volta accantonino la formula (di grande successo) di fare i processi via carta stampata. Lo capisca pure il governo: la tattica di Ponzio Pilato non paga.