Gli ultimi dati economici italiani non sono molto incoraggianti: l’Istat prevede che il terzo trimestre dell’anno si chiuderà con un Pil al -0,2% rispetto al trimestre precedente e al -2,4% su base annua. Inoltre, l’export a settembre ha fatto segnare una battuta d’arresto: -2% rispetto ad agosto e -4,2% su base annua. Si tratta della peggiore flessione dal dicembre 2009. Non è un dato da sottovalutare, poiché finora le esportazioni hanno garantito ordini alle nostre imprese, che stanno facendo i conti con una domanda interna in drammatico crollo a causa delle politiche di rigore adottate dal Governo Monti. Lo ricorda anche Alfredo Mariotti, Direttore generale di Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, che riunisce oltre 200 imprese del settore: «Ormai il 75% della nostra produzione è destinata all’estero, ma prima del 2008 esportavamo circa il 55%. Le nostre aziende, pur essendo medio-piccole, hanno cominciato a riorganizzarsi e a muoversi nei paesi più lontani: è l’unico modo per far fronte a questo grave momento di difficoltà».



Quali sono i paesi verso cui esportate di più?

Quelli principali sono Germania, Cina, Francia e Stati Uniti. Ma ci sono anche tanti paesi che stanno vivendo una fase di industrializzazione e quindi hanno bisogno di macchine utensili: India, Brasile, Russia e Turchia. Si rivolgono alle nostre imprese perché l’Italia è il quarto produttore al mondo. E ormai siamo il terzo Paese esportatore.



A quanto ammonta la differenza tra la produzione per il mercato interno e quella destinata all’export?

Basti un dato su tutti: fatto 100 l’indice degli ordini a prezzi costanti relativo al 2005, la media dei primi tre trimestri del 2012 è 112,7 per l’estero e 46,4 per l’Italia. Queste cifre spiegano quanto sia cresciuto l’export negli ultimi anni e mostrano che le vendite in Italia si sono più che dimezzate. Ciò è dovuto in particolare al fatto che la gran parte della produzione di macchine utensili è destinata al settore automotive, che sappiamo tutti essere in forte crisi. In ogni caso, nonostante le vendite che registriamo all’estero, non c’è di che rallegrarsi.



In che senso?

La perdita sul mercato interno non è un pericolo solo per il nostro settore, ma anche per tutte le imprese che sono a valle. Quel che sta avvenendo significa infatti che chi lavora metallo in Italia non sta acquistando macchinari nuovi, mentre i competitori stranieri sì. In breve questa differenza tecnologica si farà sentire. Inoltre, l’indice che le ho dato prima sui primi tre trimestri del 2012, a livello generale è a 85,9. La crisi dunque morde e visto che il mercato italiano è fermo, l’unico modo per tenere in piedi le nostre imprese è cercare di agevolare l’export. In questo senso, come Ucimu abbiamo una proposta riguardante l’Irap.

Di che cosa si tratta?

Si basa sul principio del commercio internazionale, secondo cui i beni e i servizi devono essere esportati in esenzione di accise. Per la parte riferibile al costo del lavoro, l’Irap può essere considerata un’imposta indiretta specifica (analoga alle accise), che tra l’altro i nostri competitor stranieri non pagano. Se non è possibile abolire l’Irap sul lavoro, chiediamo almeno che venga rimborsata la parte riferibile all’export.

 

E come si fa a calcolare questa quota?

 

Le faccio un esempio: un’azienda che paga 150 di Irap, di cui 100 riferibili al costo del lavoro, ed esporta il 60% del fatturato, dovrebbe ricevere un rimborso pari a 60.

 

Sarebbe certamente una boccata di ossigeno per le imprese che devono fare i conti con un’elevata pressione fiscale.

 

Senza dubbio, ma quello del peso del fisco non è l’unico problema con cui hanno a che fare le aziende. In occasione della Bi-Mu, la fiera biennale delle macchine utensili che abbiamo organizzato a Milano a inizio ottobre, abbiamo scoperto che le nostre imprese sono interessate a investire, ma si scontrano con la mancanza di liquidità. Data la situazione di crisi, sono sottocapitalizzate e fanno sempre più fatica a rientrare nei parametri di Basilea 3 per avere accesso al credito. Abbiamo quindi studiato due proposte per aumentare la loro patrimonializzazione.

 

Ce le può illustrare?

 

Molte imprese hanno nel settore un nome molto importante, riconosciuto a livello mondiale. Il loro brand è quindi importante. Ma nella maggior parte dei casi non ne hanno mai indicato il valore in bilancio. Nessuno vieta loro di farlo, ma ciò comporterebbe un aumento dell’imponibile fiscale. La nostra proposta è quindi permettere a un’azienda di far valutare il suo brand da un ente terzo (magari l’Associazione bancaria italiana) e di poter iscrivere questo valore nel suo stato patrimoniale con neutralità fiscale. In questo modo si incrementerebbe il patrimonio e il rating dell’azienda ai fini di Basilea 3. Naturalmente, essendoci neutralità fiscale, il valore posto a bilancio non verrebbe messo in ammortamento e pertanto lo Stato non perderebbe gettito.

 

E la seconda proposta?

 

Riguarda i cosiddetti mini-bond, per i quali esiste già una legge, che però non sembra poter funzionare bene. Infatti, per un’azienda medio-piccola emettere obbligazioni e convincere gli investitori istituzionali e le banche ad acquistarle è veramente dura. Anche perché i bond corrispondono a debito e questo comporta un peggioramento del proprio rating.

 

Come si può risolvere questo duplice problema?

Se le obbligazioni fossero convertibili, non verrebbero considerate debito. Inoltre, darebbero una garanzia in più a chi le compra, perché se l’imprenditore non le rimborsasse perderebbe una quota dell’azienda. Da parte loro, anche gli investitori istituzionali e le banche devono essere coperti da alcuni rischi. Per questo dovrebbero essere invitati a creare, in pool, un fondo per gli investimenti e dovrebbero avere, su ogni investimento, una parte di copertura da parte del Fondo nazionale di garanzia. Questo permetterebbe loro di non vedersi abbassare il proprio rating con esposizioni allo scoperto e di scontare i bond presso la Bce.

 

Lo Stato dovrebbe quindi fare la sua parte, visto che ha parlato del Fondo nazionale di garanzia.

 

Certo. Lo Stato deve rischiare se vuole mantenere in vita l’industria italiana che è composta per la maggior parte da Pmi. Quindi, dovrebbe mettere a disposizione il Fondo e aumentarne la dotazione. Con questa proposta si toglie un alibi per tutti: le imprese avrebbero a disposizione la liquidità che tanto invocano, le banche sarebbe messe nelle condizioni di sostenerle senza che ci siano di mezzo dei rating, e lo Stato potrebbe fare qualcosa di molto concreto.

 

Queste tre proposte (Irap, brand e mini-bond) di cui ci ha parlato vengono dalla vostra associazione, ma si adatterebbero a tantissime imprese al di fuori del vostro settore.

 

È vero. Infatti, le abbiamo condivise con Confindustria, che è apparsa molto convinta di queste idee. Le abbiamo anche presentate al ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera, quando ha partecipato all’inaugurazione della Bi-Mu. C’è stato detto che verranno studiate a fondo.

 

Pensate che si concretizzeranno in qualche modo?

 

In questo momento non si può essere né fiduciosi, né pessimisti. Il vero discrimine sembra essere rappresentato dalla campagna elettorale: queste proposte potrebbero entrare nel dibattito oppure essere completamente messe a margine dalle scaramucce tra i partiti. Penso che se non se farà nulla, però, la situazione diventerà grave: il manifatturiero è il settore che sostiene il Paese e non può resistere ancora a lungo.

 

(Lorenzo Torrisi)

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