Il professor Mario Deaglio, l’economista che in carriera ha diretto il Sole 24 Ore, ha paragonato nel suo rapporto annuale sul capitalismo l’Italia “alla nave Costa Concordia riversa sul fianco al largo dell’isola del Giglio, che rappresenta l’economia italiana incagliata più per debolezza del sistema che per problemi tecnici”. Dopo il +1,5% fatto segnare in media dal Pil italiano nel decennio 1990-2000, ha notato Deaglio, si è passati al +1% del periodo 2001-2007; poi la crisi ha visto l’Italia scivolare al -0,9% tra il 2008 e il 2012, mentre per l’arco di tempo che va dal 2013 al 2017 le previsioni sono per un +0,6%, che non sarà sufficiente nemmeno per tornare ai livelli di dieci anni prima.



Insomma, nota l’economista, “dal 2007 l’Italia è scivolata all’ultimo posto tra i Paesi del G7 per quanto riguarda la percentuale di crescita del Pil. Situazione che, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, sarà confermata almeno fino al 2017, anno in cui l’Italia sarà l’unico tra i grandi paesi industrializzati a essere ancora al di sotto dei livelli pre-crisi”.



Il professor Deaglio è, tra le altre cose, un ottimo giornalista. Perciò mi perdonerà di aver ceduto alla tentazione di ricordare che il professore è felicemente sposato da sempre all’attuale ministro del welfare, Elsa Fornero. Ovvero un tecnico che aveva e ha tutte le competenze necessarie per avviare la soluzione dei problemi del mercato del lavoro di casa nostra. E ci ha pure provato, scontrandosi con la “debolezza del sistema” che è difficile attribuire a una sola parte sociale o politica. Ma che, al tempo stesso non offre alcun terreno solido per ripartire o, almeno, per offrire qualche legittima speranza. Di questo passo, insomma, la prospettiva di ritrovarci nel 2017 più poveri del 2007 (ma anche più anziani e più bisognosi di welfare) è credibile.



Riuscirà l’accordo tra le Parti sociali benedetto dal Governo a invertire il trend? Lecito dubitarne. Non solo per la mancata firma da parte della Cgil, che pure rappresenta un grosso smacco per l’esecutivo e per la strategia di Giorgio Squinzi, alternativa al “cattivo” Sergio Marchionne. Ma perché la gravità della situazione non lascia spazio a dubbi. Nel corso degli ultimi vent’anni la produttività dell’economia italiana è rimasta in pratica ferma, come ha certificato l’Istat. Ma il dato, reso pubblico poche ore prima dell’accordo tra le Parti sociali (Cgil esclusa), dice poco se non viene paragonato a quello che hanno fatto nel frattempo gli altri.

Ebbene, mentre la produttività del sistema Italia viaggiava a un tasso medio annuo dello 0,5%, negli Usa è cresciuta del 19,4% nei dieci anni che corrono tra il 1997 e il 2007, salvo poi accelerare nell’ultimo periodo. La Germania, che fino al ‘95 registrava un costo del lavoro per unità di prodotto superiore al nostro, ha accumulato un vantaggio di trenta punti circa di competitività. Il fenomeno, lungi dal regredire, nel corso dell’ultimo anno si è addirittura accentuato: Grecia, Portogallo e Spagna hanno recuperato, seppur in minima parte, terreno. L’Italia no, al punto che lo stesso Mario Monti, dopo l’accanimento terapeutico fiscale dell’ultimo anno nei confronti delle famiglie e dei consumi, ha dovuto riconoscere che oggi la produttività è la madre di tutti i problemi del Bel Paese, come un tempo lo fu l’inflazione.

Certo, questi rilievi non fanno passare in secondo piano i non pochi passi avanti dell’intesa in materia di orario, flessibilità nelle mansioni, rivalutazione della contrattazione a livello territoriale. E, ovviamente, il fatto che finalmente un seppur piccolo tesoretto viene destinato ad alleggerire il peso sulla busta paga. Tra l’altro, almeno nelle intenzioni, con un legame diretto sulla produttività. Tutte cose positive, che potrebbero permettere in tempi normali di accorciar la distanza dai tedeschi. Ma questi non sono tempi normali. E pur tra mille difficoltà pare lo abbia capito anche il governo socialista di Parigi, che a tempo di record ha avviato una manovra di sgravi a vantaggio delle imprese nell’ordine di 20 miliardi.

L’Italia, si può obiettare, non può permettersi nulla del genere. Vero. Ma è altrettanto vero che con un carico fiscale del 68% sulle imprese, non c’è riforma che tenga: la depressione è garantita. Inoltre, si sa, la produttività non è solo questione di costo del lavoro, bensì di infrastrutture, materiali e virtuali, di ritorno degli investimenti in ricerca e sviluppo e nella formazione. Si calcola, ad esempio, che due anni di scuola in più possano valere in vent’anni un 20% di Pil in più. Ma che si è fatto in questo anno per muoverci in quelle direzioni?

Il Governo ha il merito di aver spento l’incendio dello spread. Ma se non si rimedia alla siccità il fuoco tornerà a farsi minaccioso. E tutti, a partire dalla Cgil e dai retori che dominano nelle tribune tv, dovranno assumersi le proprie, pesanti responsabilità. Ma non solo loro.