Il post “La morte delle pmi” sul sito di Beppe Grillo denuncia un problema serio e un disagio vero. Spesso si accusa Grillo di demagogia o di populismo, fenomeni che senz’altro sono componenti del suo messaggio, ma si dimentica che sono conseguenze: Grillo interpreta un disagio reale della società, in questo caso delle imprese. Se ha un consenso superiore al 10-15%, non lo si può liquidare frettolosamente.
Che fare impresa in Italia sia una missione impossibile, è poco ma sicuro. Ho detto varie volte che se Steve Jobs o Bill Gates fossero nati in Italia, le loro imprese non sarebbero mai nate, e che se Guglielmo Marconi facesse oggi quello che ha fatto 100 anni fa sarebbe in galera. Basta parlare con uno qualunque dei protagonisti del miracolo italiano per sentirsi dire che, se nel 1945 ci fossero stati i mille laccioli normativi e burocratici di oggi e le banche avessero deciso il merito di credito con i criteri di Basilea2, avremmo ancora le macerie per strada.
Per stare ai temi di attualità, è difficile non cogliere – anche se esperti e media non lo dicono – quanto pesi la gestione della burocrazia da parte delle imprese sulla scarsa produttività. Allo stesso modo, si parla di crescita, mentre il ritardo infinito e irresponsabile dei tempi burocratici blocca, sul solo settore privato, almeno 3 punti di Pil. O non accorgersi che un sistema della tassazione che toglie alle imprese mediamente (ma sulle Pmi questa percentuale cresce e di molto) il 68,5% degli utili li sottrae agli investimenti.
Detto questo, sull’analisi non è difficile essere d’accordo con Grillo. Come spesso accade, però, ci si può fermare alla protesta e inveire (basta leggere i commenti al post) o cercare di costruire, riformando un assetto che ormai è diventato una barriera insormontabile. Più difficile è trovare nel M5S una parte propositiva. Non è uscendo dall’Euro o dall’Europa che salveremo le nostre imprese. Non è chiudendo per legge le associazioni d’impresa o obbligando le banche a dare soldi a tutti e gratis che si può crescere. In questi anni, sono state fatte diverse norme che sono andate nella direzione del creare un contesto favorevole all’impresa, a cominciare dallo Statuto delle imprese (Legge 180/2011) approvato all’unanimità dal Parlamento.
Sia nei principi: si pensi a quello di proporzionalità, entrato con lo Statuto nella legislazione italiana, che prevede che norme e controlli siano fatti in considerazione delle dimensioni delle imprese e che ha visto attuazione in norme successive. Sia nelle parti più “operative”: il recepimento della nuova direttiva europea sui ritardi dei pagamenti e l’Iva di cassa (che sarà operativa dal 1 dicembre prossimo) sono due esempi di intervento che rispondono concretamente ai problemi delle imprese, soprattutto delle piccole. Detto questo, siamo solo all’inizio. Molto, moltissimo, c’è ancora da fare: dobbiamo rimontare almeno 30 anni di iper-produzione normativa e burocratica. Ma anche e soprattutto una mentalità sindacalistica (nel senso deteriore) della nostra burocrazia.
Così come dobbiamo renderci conto, a ogni livello, che il benessere di cui abbiamo goduto per decenni non durerà meccanicisticamente per sempre: senza un nuovo impegno a costruire (ripeto: a ogni livello!) siamo destinati a regredire. Alle politiche occorre chiedere che siano a favore di chi si impegna e investe. Ma la grande questione non sta in nuove norme o nell’abbattimento violento del sistema: sta nella libertà e nella responsabilità di ciascuno, ognuno nel suo ambito.