L’Ilva è una grande realtà siderurgica di cui il Paese non può privarsi. Secondo i calcoli di Federacciai-Confindustria, le ripercussioni negative sull’economia nazionale andrebbero dai 5,7 agli 8,2 miliardi: vale a dire circa lo 0,5% del Pil. Senza contare gli effetti negati sul piano del lavoro: il personale direttamente interessato alle attività produttive di Ilva e delle società strettamente collegate a essa (come Innse e Sanac) è pari a 15.358 unità. Di quest’ultime 11.611 sono impiegate presso lo Stabilimento di Taranto.



L’Ilva è anche una realtà industriale che stava affrontando la crisi economica con buoni risultati. Il suo fatturato consolidato nel 2011 è stato pari a 6.036,84 milioni di euro, in ripresa, rispetto al 2010 e al 2009, ma al di sotto del fatturato del 2008 (-13,2%). Anche il valore della produzione realizzato nel 2011 (6.342,84 milioni di euro) è stato in ripresa del 21,0% rispetto al 2010 e del 97,5% rispetto al 2009, ma ancora al di sotto (-10,8%) rispetto al 2008. Questi valori negativi sono da ricondursi principalmente all’impatto della crisi economica mondiale che, iniziata già nella seconda metà del 2008, si è venuta a manifestare in tutti i suoi effetti, con particolare virulenza per il settore siderurgico, nel 2009 e ancora nel 2010.



L’Ilva è al tempo stesso afflitta da mali endemici, come gli esorbitanti costi di risanamento ambientale, dell’energia necessaria alla produzione e gli alti costi del lavoro. A questo va aggiunta l’assoluta assenza di qualunque leva fiscale incentivante.

Le soluzioni per ciascun problema evidenziato possono essere affrontate con accordi di programma con le amministrazioni centrali e locali per spalmare gli interventi di risanamento ambientale, secondo priorità concordate, in un periodo di tempo medio-lungo (alla maniera di un concordato preventivo in caso di default aziendale). Sarebbe, poi, opportuno facilitare la realizzazione di impianti di autoproduzione di energia in loco (ad esempio, centrali a ciclo combinato e cogenerativo a gas) e non continuare a sussidiare l’acquisto di energia di cui, alla fine, beneficiano anche soggetti che non ne avrebbero bisogno. Infine, sarebbe il caso di utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali possibili.



Solo in questo modo si può sperare che qualche investitore, soprattutto estero, possa considerare l’ipotesi di rilevare gli impianti. Forse la situazione potrebbe risolversi se venisse consentita la realizzazione del rigassificatore off-shore e di una centrale termoelettrica da almeno 800 MW. In questo caso, la suggestione potrebbe essere quella di un intervento della Cassa depositi e prestiti attraverso Snam e Terna che devono investire in infrastrutture.

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