Non doveva finire così. Non si doveva separare ancora una volta, nella realtà e nell’immaginario collettivo salute e lavoro, industria e responsabilità ambientale. Non doveva finire così: un ordine non doveva nuovamente trasformarsi in potere ed esercitare una paralisi delle attività produttive di un plesso industriale che tra indotto e lavoratori diretti coinvolge circa trentamila persone e famiglie e produce sull’immagine estera della nazione italiana una sorta di ombra per quel che riguarda la certezza del diritto; non doveva finire così per il conflitto che si aprirà inevitabilmente tra potere politico e potere giudiziario.
Il Governo non può non intervenire e lo farà per decreto suscitando fibrillazioni istituzionali in un conflitto ormai trentennale tra magistratura e politica, riaprendo, invece di lenire, ferite laceranti per la ricostruzione dello stato di diritto che è ormai necessaria in Italia. Ma vi è di più nella vicenda dell’Ilva, come si apprende benissimo sol che si legga il libro di Gianluigi da Rold “Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all’italiana”. L’Ilva è il culmine di una tragedia familistica e personalistica non solo della politica, ma anche della politica economica italiana degli ultimi trent’anni: la “politica economica a rovescio” inaugurata da Romano Prodi, allorché diede vita alle privatizzazioni senza liberalizzazioni negli anni Novanta e si allocarono così immensi patrimoni industriali senza arte né parte, né rispetto della decenza.
Cosicché i rottamatori da forno elettrico si ritrovarono a guidare imprese siderurgiche a ciclo integrale in una siderurgia che dagli anni Trenta in avanti era divenuta la più avanzata al mondo, grazie al lavoro di tecnici di immenso valore quali Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia. Di tecnici e di operai che hanno costituito motivo di vanto e oggetto di studio a livello internazionale.
L’ondata privatizzatrice aveva al suo centro non solo un’ideologia fondamentalista che faceva preferire a qualsivoglia proprietà pubblica qualsivoglia proprietà privata, ma altresì un’assoluta incapacità di preveggenza dei cicli dell’economia mondiale. Il pensiero dominante neoclassico naturalmente credeva, sulla scorta dei fasti della cosiddetta new economy, che ormai per le industrie di beni strumentali non vi fosse più nulla da fare: erano decotte e tutte dovevano essere chiuse o delocalizzate in Asia oppure, pensate un po’ – e nessuno, salvo i pochi sprovveduti come chi scrive, faceva risaltare la contraddizione -, privatizzate e vendute a imprenditori che per infusa unzione eran d’incanto più abili di coloro che si indicavano come boiardi di Stato: procedettero alla disintegrazione delle possenti industrie (leggete il capolavoro di Ermanno Rea “La dismissione” sulla fine che fecero fare alla siderurgia di Bagnoli e capirete e piangerete se avete un’anima) e le ridussero a spezzatino con immensi guadagni finanziari.
Vi era una contraddizione evidente: non erano più competitive, le industrie, quando erano un tutt’uno integrato. Lo divenivano s’erano disintegrate. Ma erano i fasti della finanza e dell’Internazionale Socialista che governava l’Europa con annessi e connessi partiti neoamericani e imitatori di Clinton che deregolamentava i mercati finanziari a dettare legge. Così si inventò la categoria moderna e innovativa del mercato aggiusta-tutto e salvifico: l’industria era antica non innovativa, non “renziana”, insomma… E ora, invece, eccoci qui: i Brics hanno così bisogno di acciaio, di petrolchimica e di chimica, che i cinesi sino a pochi anni or sono compravano rottami nelle valli pedemontane per i loro scassatissimi forni elettrici e gli indiani acquistavano ciò che rimaneva dell’industria siderurgica e chimico-etilenica europea, che invece doveva essere prodianamente defunta. Cose da pazzi.
Non dovevamo giungere a questo. Aggiungiamo che l’industria di Stato ha avuto nella sua storia tante pecche, ma mai quella di essere insensibile ai problemi ambientali e che si è sempre dovuta far carico – allorché era costretta a farsene carico – delle imprese private decotte e inquinate, con immense bonifiche che ne rovinavano i bilanci. Anche oggi nel caso dell’Ilva si leggono – e non si dovrebbero leggere – trascrizioni d’intercettazioni di funzionari d’impresa (ma non erano disonesti solo quelli pubblici tutti infeudati ai partiti mentre quelli privati non erano né razza padrone, né razza cleptocratica?) che evitavano controlli ambientali et similia.
Non dovevamo giungere a una simile dimostrazione di non conoscenza tecnica. Per mesi si è parlato di accendere e spegnere le aree a caldo dell’impianto tarantino come se si trattasse di un interruttore, invece che di un impianto per trattare il quale occorrono sei mesi per spegnerlo e sei mesi per riaccenderlo… Sublime innocente ignoranza… E così ora il conflitto diviene endemico e divide ciò che non dovrebbe essere mai diviso se non per ragioni ideali: il lavoro, tra chi è nella fabbrica e chi ne è fuori, ma che lavoratore è anch’Egli o anch’Ella, con una devastante lotta tra poveri indifesi.
Tutto è fuori squadra: privatizzatori che non sono in grado di guidare un’azienda troppo complessa per la loro storia; magistrati che dovrebbero essere servi dello spirito delle leggi, come insegna il grande filosofo francese Montesquieu, e non invece dello spirito dei tempi. Il Governo naturalmente deve fare la sua parte e decretare la riapertura degli impianti se non vogliamo perdere un settore importante di ciò che rimane della nostra industria forse più gloriosa per storia e capacità tecniche.
Lo spirito dei tempi, infine, dovrebbe mutare e comprendere che la sostenibilità ambientale è un bene troppo prezioso per non richiedere una gestione collettiva e comune di un bene che se non rimane anch’esso comune è destinato a rivoltarsi contro il lavoro e la stessa vita dell’umanità associata nell’industria.