L’allarme civile che negli anni scorsi era stato suscitato, presso poche coscienze consapevoli e molte malefedi interessate, dall’abuso delle intercettazioni perpetrato dalle Procure e dai loro media di riferimento traeva origine dall’effetto reputazionale inappellabile che le trascrizioni pubbliche delle telefonate tra imputati sortiscono. Insomma, se le proprie frasi imprudenti finiscono stampate sul giornale, si è già definitivamente colpevoli, anche ad anni dalla sentenza di Cassazione.



Per questo, come, in barba a ogni diritto di difesa, le penose chiacchieratine private tra Berlusconi e le sue ragazze hanno inchiodato l’ex premier in una dimensione ridicola che l’ha definitivamente delegittimato nel mondo e davanti a tanti dei suoi stessi supporter (salvo il “circolo degli intimi” più o meno stipendiati), così nelle ultime settimane le intercettazioni trapelate – per così dire – dall’inchiesta sull’Ilva hanno già condannato senza appello i Riva, la mitica famiglia imprenditrice padrona dal ‘95 del più grande impianto siderurgico d’Europa.



Già, perché leggere i dialoghi cinici, strafottenti, complottisti che rimbalzavano tra i personaggi del vertice aziendale e molti loro interlocutori esterni sulla deliberata volontà di non affrontare fino in fondo il nodo della messa in sicurezza dell’impianto; constatare in quelle parole la spregiudicatezza morale con cui parlavano delle malattie sociali nel circondario, della rovina dell’ambiente, delle morti bianche, beh: genera un effetto deprimente, indignato, una ribellione civile che difficilmente lascerà vie di scampo giudiziario al carcerato Emilio Riva e al latitante figlio Fabio.



La loro storia, in verità, sembra un paradigma di “come non si fa impresa”, un errore continuato e aggravato, dissimulato, però, e nascosto da decenni di fredda e calcolata opacità. Niente Borsa, trasparenza contabile ai minimi di legge, chiusura massima al dialogo sindacale, e mille piccole elemosine – anche e soprattutto a livello locale – per circondarsi di clienti e clientini, adatti – alla bisogna – a trascurare il timbro, dimenticare il fascicolo, chiudere un occhio sul reclamo.

Anche la mistica dell’impresa di famiglia tutta-lavoro-e-fabbrica appare gravemente compromessa dalla realtà di un’azienda che – se effettivamente non erogava dividendi e riconosceva stipendi bassi ai famigliari-soci che vi lavoravano da dirigenti – li ristorava più che ampiamente, pagandogli decine di milioni l’anno sotto forma di “consulenze gestionali”, per modo di dire, alla finanziaria di famiglia. E il vecchio motto del patriarca Emilio – “non m’affeziono mai alle persone, figuriamoci alle cose” – suona oggi sinistramente profetico.

Tutta tasca e niente cuore, è questo il profilo di un’imprenditoria che non investe a dovere nella prevenzione delle malattie da inquinamento: e sa Dio se all’Italia mancavano – con la storica cultura anti-impresa che vi si respira da sempre – ulteriori argomenti avversi ai diritti dell’imprenditoria. Ora è giocoforza schierarsi sulla soluzione che il Governo varerà per gestire l’emergenza: è impensabile che l’impianto chiuda davvero – come pure la magistratura ha fatto bene a imporre, non disponendo di altri strumenti per mettere alle spalle al muro i responsabili di questi crimini -, ma il Governo non può limitarsi a riaprire per decreto, affidando poi la gestione a persone comunque designate da una proprietà a tal punto delegittimata da essere o agli arresti o latitante.

Il commissariamento dev’essere integrale, ci vuole un Bondi della situazione che garantisca l’impiego di ogni centesimo disponibile al fine di ripristinare condizioni ecologiche sostenibili a Taranto. E ci vuole, come per una calamità naturale, lo stanziamento di risorse adeguate per far sì che l’impianto venga risanato, salvo rivalersi sullo sterminato patrimonio della famiglia Riva non appena sarà giuridicamente accertato il livello delle sue responsabilità. Possibilmente, fino a lasciarli sul lastrico.

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