Il Governo si accinge a mettere una pezza sul caso Ilva. Più per forza e necessità che per reale convinzione. Per lunghi mesi il dossier è stato passato da una scrivania all’altra, quasi a sollecitare l’ennesimo intervento a gamba tesa della magistratura. Per mesi, l’esecutivo ha subito i tempi della burocrazia, dell’iter giudiziario, del balletto dei dati e delle cifre, senza prendere una iniziativa convinta e convincente.
Mica per una colpa specifica del ministro Corrado Clini, uno dei migliori membri di un esecutivo che si sta squagliando, fuori stagione, come neve al sole. O perché non fosse chiara la strada da percorrere, ancor prima del blitz della magistratura o del ricatto da parte della proprietà incriminata. Era evidente che l’unica strada percorribile non poteva che passare dall’intervento pubblico, seppur temporaneo, nella gestione dello stabilimento di Taranto con l’obiettivo di metterlo in sicurezza, mantenere livelli occupazionali adeguati a un equilibrio dei conti e non infliggere all’economia italiana l’ennesima ferita.
Perché lo stop di Taranto, tra gli altri danni, potrebbe infliggere agli industriali italiani fino a 5 miliardi di euro di costi aggiuntivi ogni anno e mandare sul lastrico una serie di aziende, come ha sottolineato il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi. Eppure si è atteso fino all’ultimo, sperando nel fattore tempo, quello che ha consentito di non prendere decisioni di sorta, in un senso o nell’altro, sul fronte di Finmeccanica. Anche lì, in una cornice molto diversa, l’intervento della magistratura ha accelerato processi e conflitti covati da tempo. Ma l’esecutivo, sfruttando l’arma dell’attesa, è riuscito a non decidere. Quindi a scontentare nessuno. O a scontentare tutti.
Il caso Ilva ha senz’altro un valore emblematico. In Italia e in Europa. Perché il processo di unificazione europea, che ha mosso i suoi primi passi proprio nell’acciaio, rischia di subire qui una brusca battuta d’arresto. In questo settore, come ahimè in molti altri, la vecchia Europa lamenta un eccesso ormai strutturale di capacità produttiva, fenomeno che affligge buona parte dei clienti del ciclo siderurgico: auto, elettrodomestici e così via.
Non solo. Produrre nel vecchio Continente è sempre più costoso e, come dimostra la vicenda Ilva, gli “strappi” sul fronte della sostenibilità ambientale non sono più tollerati o tollerabili. Sarebbe necessario un salto in avanti coraggioso, ovvero un’iniezione di tecnologie ma accompagnata dalle necessarie bonifiche ambientali. Sarebbe necessario che l’Italia battesse i pugni sul tavolo per far marciare la proposta di una carbon tax sui rottami – merce sempre più rara e costosa – che vendiamo a Usa e Cina; paesi che, al pari del Brasile o della stessa India, si sfidano a suon di dazi sempre più alti.
Al contrario, l’eurozona resta l’area più aperta all’import di tutto il pianeta. A Bruxelles, dopo due decenni all’insegna del liberismo assoluto, hanno appena inaugurato un tavolo sulla siderurgia. Nel frattempo, l’eurocrazia vola alto: proprio oggi si apre il negoziato per la caduta dei dazi tra Ue e Giappone che, secondo i calcoli degli uffici della Comunità, può valere fino a 400 mila nuovi posti di lavoro. Chissà come li fanno certi calcoli. Per il momento, il rischio è che quel che resta dell’auto europea debba affrontare una nuova massiccia invasione da Oriente. A meno che il veto francese non imponga un argine sulle auto.
Già, la Francia. È difficile apprezzare il socialismo tricolore d’antan di Monsieur de Montebourg, che ha minacciato di nazionalizzare lo stabilimento di Fleurange se Lakshmi Mittal, il magnate indiano dell’acciaio, non rinuncerà alla chiusura di due forni. È altrettanto difficile apprezzare il richiamo ai “sans-culottes che sono tornati a comandare a Parigi”, fatto dal funambolico mayor di Londra, Boris Johnson, per attrarre le acciaierie controllate dagli ex sudditi di sua Maestà in terra d’Albione. Merita più attenzione, probabilmente, la strategia di penetrazione in Asia e, via Brasile e Messico, in Usa da parte del colosso tedesco Thyssen che, seguendo le linee di sviluppo industriale già battute da Volkswagen, cerca di ovviare al calo dei consumi in Europa aprendo nuovi mercati.
In mezzo a tanto movimento fa tristezza il richiamo al complotto avanzato dal ministro dell’Ambiente: “Ci sono manovre per far chiudere l’Ilva”. Da parte dei concorrenti? Ma quali concorrenti? Certo, la produzione del gruppo Riva è esattamente pari alla sovraccapacità produttiva dell’intera Europa. Ma nessuno, a Londra o nella Ruhr piuttosto che a Bombay, può pensare che l’Italia sia così autolesionista. Anche se i precedenti dell’autolesionismo italiano, dallo smaltimento rifiuti all’energia, non mancano.
Non è solo questione d’acciaio, infatti. Dopo 18 mesi passati a compulsare i listini alla ricerca della variazione dello spread o a lanciare grida di giubilo quando il mercato assorbiva Btp al cinque per cento e passa, dovremmo dedicare un po’ d’attenzione a quel che resta dell’industria e dei servizi di casa nostra. Pochi giorni fa Fiat ha collocato una seconda tranche di un bond emesso nel luglio scorso. Allora, in piena crisi, il Lingotto pagò un rendimento del 7,75%. E adesso? Ecco il commento di Gianluca Parenti, apprezzato analista di Intermonte : “Ebbene, approfittando del buon momento del mercato dei corporate bond, Fiat ha riaperto l’emissione per altri 400 milioni di euro piazzati al 7,4%!!! Solo lo 0,35% in meno rispetto a luglio. Caspita, ma a luglio lo spread dei titoli di stato italiani stava a 500 punti base circa! Oggi è a 330, 170 punti in meno… la Fiat ne ha risparmiati solo 35!!!”.
Insomma, c’è il rischio-Paese, ma c’è pure un rischio-Fiat: negli stessi giorni un bond lo ha emesso anche Bmw. Un po’ più lungo (5,5 anni contro i 4 della Fiat), ma a un tasso dell’1,53% che rispetto al 7,4% di Fiat fa 5,57% di differenziale. Togliamoci il 3,3% di spread-Paese e sono 257 punti base di differenza sopra il rischio-Paese! “La Fiat – sintetizza Parenti – è come un povero padre di famiglia indebitato che, per mandare a scuola i figli e portare la moglie al cinema, va dagli strozzini… non dura a lungo. Ma perché la zia d’America non gli dà una mano e magari emette lei a tassi più interessanti? Lo scopriremo solo vivendo”. Difficile che ci possa dare una mano il Governo, nonostante le sortite del ministro Corrado Passera, ancora sotto shock per l’accoglienza ricevuta in Sulcis dagli operai imbufaliti per l’esito del suo primo (finora unico) tentativo di intervento in politica industriale.
Intanto, senza alcun crisma di ufficialità, sono partite le gradi manovre per vendere “pezzi” del sistema. Niente di drammatico, per carità. Il Regno Unito ha dimostrato che, combinando interventi sulla produttività e la competitività all’afflusso di capitali dal resto del mondo, si possono rilanciare settori industriali o ridar fiato al settore dei servizi. Ma è bene parlarne. Non è affatto escluso che il Monte Paschi di Siena possa accelerare i tempi del suo recupero se la quota che il Tesoro sarà costretta ad accollarsi convertendo i Tremonti bond finirà presso un partner straniero.
E non va certo disprezzata l’apertura di Naguib Sawiris nei confronti di Telecom Italia. Certo, il prezzo offerto è quello che è, solo 0,7 euro contro un valore di carico da parte di Telco (Generali, Intesa, Mediobanca e Telefonica) di 1,5 euro. Ma non stupisce che Sawiris pretenda un prezzo di mercato. Stupisce semmai che il Governo non chieda agli istituti di sistema che intenzioni abbiano su Telecom Italia. Ne va della banda larga così come del futuro della rete. Temi di interesse generale in cui non è il caso di stare a guardare e basta. Purtroppo, in questo caso, non c’è un Mario Draghi in grado di cavare le castagne dal fuoco con un bel prestito.