Arrivano nuovi dati di conferma sulla caduta, anzi sulla “gelata” dell’economia europea in generale. Anche i virtuosissimi, iper-produttivi, iper-competitivi e bravissimi tedeschi. cominciano ad avere il “fiato grosso”. La politica d’austerità che predicano con tanto fervore, ossessionati dalla superinflazione del primo dopoguerra (quasi novanta anni fa), gli si sta ritorcendo contro. Questa volta, a spiegarlo ai teutonici è stato lo stesso Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea. L’economia della Germania comincia a risentire dell’impatto della crisi del debito in Europa e, forse, per cercare di confortare la signora Merkel, il ministro Schauble e i suoi accaniti elettori, Draghi ha spiegato: “I rischi di inflazione sono attualmente molto bassi nel medio termine”. Tradotto in parole povere, sembra che Draghi dica: allora vi muovete o no? Fate o no degli interventi per rilanciare questa economia che vive in una inquietante “debolezza generale”.
Questa volta i dati arrivano direttamente dall’austera Commissione europea che rivede al ribasso le previsioni sulla crescita dell’Italia. Se l’Italia può immaginare un po’ di luce, forse, nel 2014, lo stesso Pil dell’eurozona è sotto quest’anno dello 0,3%. Se per l’Italia si prevede una “ripresa tiepida” tra un ano e mezzo, gli altri non fanno festa. Non ci sono solo i dati da brivido di Grecia e Spagna. Ma adesso anche la Germania deve fare i conti con la crisi e la recessione. Il dato della produzione industriale di settembre della Germania è crollato: un -1,8% su base mensile dopo il calo di agosto del -0,4%. I famosi analisti si aspettavano un calo dello 0,7%. Rispetto al settembre del 2011 il calo per la Germania è stato dell’1,2%.
Di fronte a questo andamento dell’economia dell’Italia, dell’eurozona, fotografato infine anche dai dati della Commissione europea, dopo quelli dell’Istat (che non erano affatto una novità), e subito colto dall’andamento dei mercati, con crolli e risalite dello spread, ci si chiede dove porterà questa politica del rigore, quella bocciata da un economista come Paul Krugman, quella che un altro economista, stavolta italiano, Gustavo Piga, definisce la “stupida austerità”. Piga insegna Economia politica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e arriva a dire: «Insistono su questa linea di austerità, mentre è ormai noto a tutti che in un momento di recessione una simile politica non risolve nulla, anzi aggrava i problemi. Il problema è tirare il freno quando le cose vanno bene, non quando vanno male. Quello che mi chiedo, ammesso che abbiano ragione, è perché, visti i risultati che stanno ottenendo, non provino almeno a cambiare».
Professore, non si capisce proprio questa insistenza. Ci si chiede il perché…
Guardi, probabilmente è quasi un problema di emulazione. Comincia a farlo uno e tutti si accodano, fanno la stessa cosa, hanno quasi paura di prendere una decisione differente. In una situazione come questa ci vorrebbero dei leader politici che prendessero in mano la situazione in Europa e contestassero questa linea duramente. Potrebbe farlo Hollande, potrebbe farlo Monti se ne è capace. Ma in questo modo, se si va avanti in questo modo, c’è veramente il rischio non solo di una recessione lunga e pericolosa, ma c’è il rischio che salti tutto.
Una crisi di questo genere, ormai lunga, logorante, diventata un’ossessione per tutti ricorda quella degli anni Trenta dopo la caduta del 1929.
È vero e bisognerebbe andare a vedere, a studiare quello che fece Franklin Delano Roosevelt. E c’è chi lo ha fatto. Quando quel presidente americano, nel 1932, dovette decidere cosa fare per uscire dalla crisi ereditata, il peso dello Stato federale nell’economia Usa era ancora basso, seppur in crescita dai primi anni del Novecento: la spesa federale ammontava al 30% del totale ed era forte il potere e l’autonomia degli stati e degli enti locali. Che cosa scelse di fare Roosevelt? Scelse di fare la cosa giusta economicamente: espansione fiscale dal centro, per aiutare l’economia e combattere la disoccupazione. Fece una scelta politica azzeccata: espansione fiscale dal centro, ma senza rimuovere il potere decisionale di stati ed enti locali, utilizzando la leva dei trasferimenti a questi che mantenevano l’autonomia e la discrezionalità sull’allocazione della spesa.
Potrebbe essere un’indicazione anche per l’unione monetaria europea.
Otto anni dopo quella scelta di Roosevelt, gli Stati Uniti erano un’unione monetaria completamente diversa e molto più simile a quella odierna: il totale della spesa federale sulla spesa totale era salito dal 30% al 46%. Ci si può chiedere: com’è stato possibile sottrarre tanto potere agli stati e centralizzare rapidamente la funzione di governo? Semplice: nel modo opposto a quello che sta facendo l’Unione monetaria europea, che si trova ora in condizioni di quasi pari difficoltà economica. Fu possibile ideando maggiori e massicci trasferimenti e aiuti dal centro. Pochi anni dopo, grazie a questa generosità, nessuno Stato americano si oppose a cedere maggiori poteri di spesa al centro.
C’è da chiedersi se una simile scelta, che fece uscire l’America e il mondo dalla grande depressione passi ogni tanto per la testa dai “rigoristi” che non riescono, alla fine, a ottenere nulla.
Che almeno facciano una prova.
(Gianluigi Da Rold)