C’è uno spread che non cala. Giovedì la performance dell’asta di Btp è stata la migliore dal 2010: quelli a 5 anni sono stati collocati al 3,23%, quelli a 10 anni al 4,45%; perché, allora, un’azienda come la Fiat, come  ricordava Ugo Bertone su queste pagine, ha emesso obbligazioni a un tasso del 7,4% (ma gli esempi di aziende in situazioni simili sono innumerevoli)? Ecco, lo spread tra pubblico e privato non si spiega. Come, del resto, non si capisce perché, nonostante il calo dei tassi, le banche non si accingano a riaprire i rubinetti per le imprese. Abbiamo chiesto spiegazioni a Paolo Preti, direttore del Master delle Pmi della Bocconi.



Com’è possibile che le banche continuino a non prestare soldi alle imprese?

Nell’asta di giovedì i rendimenti dei titoli di Stato hanno toccato il minimo dal 2010. Un dato estremamente positivo per lo Stato, che si è trovato a dover pagare interessi molto più bassi. Non ultimo, tra i motivi che hanno consentito il decremento, c’è la progressiva riduzione, attuata nell’arco di un anno, dell’esposizione estera del nostro debito pubblico. Oggi, anche grazie ai prestiti della Bce all’1%, solo il 40% dei nostri titoli è detenuto da banche, operatori, società finanziarie o Stati stranieri; il 60% è in mano italiana. Un ribaltamento rispetto allo scorso anno. Un’operazione, quindi, da salutare positivamente. Che, tuttavia, potrebbe essere una delle ragioni che impediscono alle banche di erogare credito alle imprese.



Perché?

Se, come è presumibile, quel 60% è in mano, prevalentemente, a istituti di credito, significa che questi hanno le liquidità impegnate altrove. Per intenderci: se i soldi vanno da un parte, non possono andare anche dall’altra. Continuare a comprare titoli di Stato, oltretutto, potrebbe contribuire a un progetto più ampio, di natura politica.

Cosa intende?

Non dimentichiamo che tra pochi mesi ci sono le elezioni. Ora: per mesi ci è stato detto che il problema fondamentale era lo spread. Poter affermare che le aste sono andate bene, che il debito è rientrato, che i tassi sono diminuiti e, di conseguenza, che i differenziali con i Bund tedeschi si sono ridotti, potrebbe contribuire a sostenere un secondo mandato di Monti. Detto questo, c’è un fattore che fa sospettare che i soldi ci siano.



Quale?

Non di rado si apprende di banchieri che hanno deciso di destinare le risorse dei propri istituti al finanziamento di aziende di famiglia, in palese conflitto di interessi; o, in alternativa, a quelle di amici, o “amici degli amici”. Se ne deduce che i soldi, probabilmente, ci sono. Non sempre la dinamica con la quale vengono prestati, però, è trasparente.

 

Secondo lei, per quale motivo, invece, le aziende devono finanziarsi con tassi così alti?

 

I tassi delle obbligazioni aziendali seguono maggiormente gli andamenti del mercato. Le aziende grandi e quelle medie, quelle che normalmente emettono obbligazioni, attualmente non godono di buona fama. Nonostante i tassi dei Btp siano scesi, per rendere appetibili le loro obbligazioni sono comunque costrette a concedere interessi estremamente vantaggiosi per il cliente; a prescindere da quelli statali. Per anni si è parlato del rischio default dell’Italia, quando si sapeva, in realtà, che non sarebbe mai avvenuto. Prendiamo atto, invece, del fatto che le grandi imprese italiane sono effettivamente sotto questo rischio. 

 

Un cane che si morde la coda: la banche non prestano soldi, e lo spread delle obbligazioni aziendali aumenta. C’è modo di uscirne?

 

L’unica vera maniera, è che queste imprese tornino a finanziarsi con i metodi “tradizionali”. Aumentando la vendite dei propri prodotti. Attualmente, le uniche che riescono  sostenersi esclusivamente con le proprie attività, sono quelle in grado di operare sui mercati esteri.

 

(Paolo Nessi)