Il governo ci prova, ancora una volta, rinnovando l’ormai evidente scontro con la Procura di Taranto che starebbe valutando di portare l’esecutivo di fronte alla Corte costituzionale per un presunto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il ministro Clini ha stabilito infatti che l’Ilva può continuare a produrre e a commercializzare i suoi prodotti, “compresi quelli realizzati antecedentemente all’entrata in vigore del presente decreto legge”, attraverso un emendamento al decreto “Salva Ilva” che dovrebbe riuscire a sbloccare quel milione e 700mila tonnellate di acciaio (dal valore di un miliardo di euro) che da tempo giace sulle banchine portuali e su cui il Gip di Taranto ha respinto la richiesta di dissequestro avanzata dall’azienda siderurgica. La Procura non ha evidentemente gradito la modifica del governo, definita dallo stesso Clini “interpretativa”, e adesso minaccia di chiamare in causa la Consulta. La situazione intanto si complica, perché l’azienda è pronta a fermare entro 3-4 giorni gli impianti di Genova e Novi Ligure, a causa della mancanza del materiale da lavorare: cosa che metterebbe a rischio circa 1.400 posti di lavoro. Ilsussidiario.net ha fatto il punto della situazione insieme al professor Lorenzo Caselli, docente di Etica economica e responsabilità sociale delle imprese presso l’Università di Genova.
Professore, come giudica il braccio di ferro tra Governo e Procura?
Di fronte a una vicenda tanto complessa che trascende anche la stessa dimensione statuale, visti i criteri e parametri indicati dall’Europa su diversi aspetti, credo non sia del tutto accettabile impuntarsi sui propri limitati punti di vista. Occorrerebbe innanzitutto buon senso e un’adeguata lucidità per poter far fronte a una situazione quanto mai delicata.
L’azienda ha fatto sapere che, in conseguenza del “no” del Gip di Taranto al dissequestro dei prodotti, si fermeranno a catena gli impianti di Novi Ligure, Genova Racconigi e Salerno, ma anche a Salonicco, Tunisi e in Francia. Cosa ne pensa?
È un’ipotesi assolutamente possibile, proprio perché la siderurgia non può essere racchiusa in un solo stabilimento, ma rappresenta un intero processo. Per esempio, i cosiddetti rotoli a caldo, prodotti a Taranto, vengono successivamente imbarcati e indirizzati allo stabilimento Ilva di Genova, dove vengono trasformati nei rotoli a freddo, poi utilizzati per la produzione di numerosi prodotti quotidiani come automobili o elettrodomestici. Stiamo parlando quindi di un processo a catena in cui i vari stabilimenti sono strettamente connessi.
Quindi il fatto che l’azienda abbia annunciato che nelle prossime settimane circa 1400 persone potranno ritrovarsi senza lavoro non è solo una strategia per mettere pressione alla Procura o al Governo?
Ovviamente ognuno può giocare le carte che ha a disposizione, ma è chiaro che se non verrà stabilito il dissequestro su tutto il materiale fermo in banchina il processo inevitabilmente si fermerà, con evidenti conseguenze e ripercussioni anche sull’occupazione.
Se dovessero avvenire licenziamenti anche in altri paesi europei, a che tipo di reazioni potremmo assistere?
È proprio questo il nodo dell’intera vicenda. Credo sia arrivato davvero il momento che l’Europa prenda in mano la situazione o quanto meno intervenga una volta per tutte in modo deciso. Ogni giorno che passa ci rendiamo sempre più conto di quanto sia necessaria un’autorità europea capace di fare politica industriale: finora l’Europa ha fatto solo politica della concorrenza, dei mercati, ma non ha mai preso in considerazione un’efficace politica industriale attraverso cui chiarire quali settori sviluppare e incentivare, mettendo in comune risorse e competenze. E questo credo invece sia ormai assolutamente necessario. Non dimentichiamo poi anche i diversi aspetti etici che si stanno delineando.
Ci può spiegare quali sono questi aspetti etici?
Da un lato c’è il bene dei lavoratori, delle loro famiglie, il cui numero è molto rilevante, senza contare tutti gli effetti a cascata che tale situazione sta generando. Dall’altro lato, invece, c’è il bene della popolazione tarantina che ha diritto a condizioni di vita dignitose dal punto di vista della salute e della sicurezza: non possiamo dunque sacrificare l’una a vantaggio dell’altra o viceversa, ma occorre individuare un percorso che sia trasparente, affidabile e controllabile.
Crede sia stato fatto qualcosa in tal senso?
Un percorso del genere credo sia stato in parte individuato, visto che da un lato abbiamo l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) che ha una valenza di legge e che si collega a determinazioni europee, mentre dall’altro abbiamo il decreto del Governo che individua un percorso in cui la ripresa della produzione è strettamente collegata a impegnative questioni di risanamento che richiedono tempo e fatica, ma che non possono essere assolutamente dilazionate. Riguardo l’impatto ambientale, inoltre, vorrei sottolineare un altro aspetto.
Approfondisca…
È errato pensare che un’eventuale chiusura dello stabilimento di Taranto potrà risolvere ogni problema ambientale. Anzi, probabilmente assisteremmo proprio all’effetto contrario. Questo perché ci ritroveremmo con un “mostro” inutilizzato che continuerebbe a produrre effetti nocivi sui quali nessuno interverrebbe. Per fare una concreta valutazione dell’impatto ambientale è necessario avere dei criteri di riferimento, i quali sono stati stabiliti a livello europeo, ma evidentemente accertarli non è un’operazione così semplice, visto che esiste addirittura un conflitto tra i dati a cui ha fatto riferimento la Procura e altri che sono invece stati rilevati dall’azienda. Anche su questo è necessario che si faccia chiarezza il prima possibile.
(Claudio Perlini)