Il nepotismo, in qualunque ambito della sfera pubblica, è indubbiamente biasimevole. Ma in un’azienda privata? Quel che è certo, a quanto rivela un’analisi di Eige (European firms in a global economic) riportata da Affari Finanza, è che in Italia la percentuale di imprese date in mano ai figli o ai parenti stretti dei fondatori è più alta che altrove: il 66,3%, contro il 10,4% di quelle inglesi, il 25% di quelle francesi, il28% di quelle tedesche e il 35,5% e di quelle spagnole. Le cifre, invece, sono del tutto analoghe se prendiamo in considerazione le aziende di proprietà familiare: sono l’85,6% in Italia, l’89,8% in Germania, l’80% in Francia e Inghilterra, e l’83% in Spagna. Abbiamo chiesto a Bernardo Bertoldi, docente di creazione d’impresa alla Facoltà di Economia dell’Università di Torino, di spiegarci i pro e i contro della nostra anomalia.
Anzitutto, da cosa dipende?
Diciamo, tanto per cominciare, che in Italia, la decisione di mantenere più familiari in posizioni dirigenziali può avere ragioni di natura fiscale. Posto, quindi, che il dato possa essere da ridimensionare, non credo che si discosti particolarmente da quello sostanziale. E dipende, prevalentemente, da ragioni culturali. In una società in cui l’imprenditore non è considerato, di per sé, una risorsa per la collettività, ipotizzare il coinvolgimento di manager esterni può rivelarsi complicato. Questo, in ogni caso, è vero per le piccole e medie imprese. Normalmente, quelle grandi non hanno difficoltà ad affidare ruoli dirigenziali a persone che non fanno parte della famiglia proprietaria.
In ogni caso, crede che si tratti di un problema per l’industria italiana?
La questione è piuttosto articolata. In parte, di sicuro, è vero un famoso adagio di Bill Gates, secondo il quale, statisticamente, non si sono mai visti olimpionici tra i figli degli olimpionici. Quindi, in generale, può capitare e capita che il figlio di un grande imprenditore, o un altro suo parente, non sia all’altezza della successione. Tuttavia, può anche essere vero il contrario.
Ci spieghi.
Warren Buffet, tra gli uomini più ricchi del mondo, strenuo avversario, per anni, del familismo aziendale, nel momento in cui ha stabilito il piano di successione, ha fatto sapere di aver individuato una persona di cui comunicherà il nome a tempo debito; ma, contestualmente, ha indicato il figlio maggiore come presidente del suo impero.
Perché lo ha fatto?
Buffet ha ritenuto di assicurare all’azienda la presenza di qualcuno che rappresentasse e facesse da garante ai valori in cui ha sempre creduto, e a cui anche i manager esterni potessero ispirarsi. In sostanza, un’azienda potrà anche essere gestita dalle seconde o dalle terze generazioni, a patto che sia stato nominato un presidente che ne incardini i valori.
Nel resto d’Europa, in ogni caso, ci si affida ai cacciatori di teste per la ricerca di manager esterni
In Italia è un sistema destinato al fallimento. Normalmente, infatti, capita questo: l’imprenditore si affida ai reclutatori che, normalmente, individuano il futuro numero uno dell’azienda tra i dirigenti di una grande impresa. Dopo due colloqui con gli head hunter e altri due con il fondatore dell’azienda, il dirigente viene assunto. E, dopo sei mesi, licenziato.
Come mai?
I consiglieri di una grande azienda vedranno l’amministratore delegato poche volte l’anno. L’imprenditore di una piccola o media impresa, invece, ci vive a stretto contatto. E, prima di assumerlo, ha bisogno di tempo per conoscerne i valori e l’affinità. Pratica che non può essere delegata a società esterne. Specialmente da noi, dove l’approccio umano, anche a livello imprenditoriale, continua a essere determinante. Resta il fatto che il cosiddetto familismo, non è certo il peggiore dei mali delle nostre imprese, né il freno principale al loro sviluppo.
Che cosa lo è, allora?
L’enorme tassazione è sicuramente il principale dei problemi; ed è incommensurabile rispetto al problema delle gestioni familiari. Oltre ad essere alta, è composta in modo tale da favorire l’erogazione di dividendi, e di disincentivare gli investimenti.
(Paolo Nessi)