Quel che è successo nelle ultime ore sul fronte dell’economia pubblica italiana è una piccola, perfetta dimostrazione della fibrillazione istituzionale che la sta attraversando, nell’indifferenza del premier Monti e del ministro dell’Economia Grilli. La Banca d’Italia ha venduto – ma sarebbe più giusto dire: “girato” – al Fondo strategico italiano, strumento creato e controllato dalla Cassa depositi e prestiti, il proprio 4,5% delle Assicurazioni Generali, per un controvalore di 800 milioni di euro, che però non incassa in forma monetaria bensì entrando con il 20% nel capitale dello stesso Fondo, insomma diventando consocia dello Stato.
Lo fa per “prevenire ogni rischio di conflitto di interessi anche solo apparente o potenziale” che le deriverebbe dal fatto di diventare dal primo gennaio prossimo autorità di controllo del settore assicurativo. Però, per prevenire questo rischio – che appunto lo Stato, divenuto azionista delle Generali attraverso il Fondo, “pubblicizzi” la gestione del colosso assicurativo – il Fondo stesso dovrà vendere sul mercato entro tre anni la quota in Generali e nel frattempo esercitare i diritti di voto nell’assemblea degli azionisti che gliene derivano “secondo i criteri seguiti dalla Banca d’Italia per le sue partecipazioni”, cioè allineandosi agli investitori istituzionali che presentano liste di minoranza.
Si può lecitamente dire quindi che: 1) la Banca d’Italia esce dalle Generali per una questione estetica, perché l’ininfluenza che il Fondo s’impegna a rispettare da azionista delle Generali poteva tranquillamente essere garantita dalla stessa Bankitalia, risparmiandosi questo balletto: o dovremmo concluderne che Bankitalia è meno credibile del Fondo? 2) lo Stato entra nelle Generali, ma non vi entra veramente, perché si impegna a uscirne in tre anni e, nel frattempo, a non contare niente.
Ce ne sarebbe d’avanzo per lasciare sbalorditi. Tanto falso movimento per una pura questione di principio. Ma c’è di più. Il Fondo strategico italiano, ottimamente guidato dal banchiere d’affari Maurizio Tamagnini – ex Merrill Lynch, un italiano per bene che ha fatto successo nel settore privato internazionale e che è stato scelto da un altro manager di schietta carriera meritocratica come Giovanni Gorno Tempini, il capo della cassa – stava anche puntando da mesi a fare due operazioni di politica industriale vera: l’acquisizione dell’Ansaldo Energia dalla Finmeccanica; e l’acquisizione (sempre in cordata con altri soci, nel caso Clessidra e Cvc) dell’Avio dal fondo Cinven e dalla stessa Finmeccanica che detiene nella società aerospaziale piemontese una quota di minoranza, pari al 14%, legata alle sorti del pacchetto di controllo.
Due mosse decisamente più coerenti – rispetto al balletto Generali – con la vocazione strategica del fondo, che è quella di investire in aziende sane di rilevanza strategica per l’industria del Paese. Che avrebbero dovuto essere se non accolte certo considerate con un occhio attento dal venditore pubblico, decisore unico nel caso di Ansaldo e co-decisore nel caso di Avio.
Ebbene, il Fondo strategico della Cassa si è visto rinviare al mittente, ieri, la sua proposta d’acquisto per l’Ansaldo Energia. L’azienda genovese – fortemente desiderata dalla tedesca Siemens e dalla Coreana Doosan – rimane dunque in vendita, ma tra un po’, e precisamente se ne riparlerà “all’inizio dell’anno”, il che significa in sostanza quando si sarà insediato il nuovo governo che, da padrone della Finmeccanica, prenderà la decisione finale. Quindi la politica, nel caso dell’Ansaldo Energia, si riprende “ciò che è suo”.
Non si riprende, invece, l’ex Fiat Avio – oggi solamente “Avio” -, una delle aziende italiane a più forte tecnologia, ceduta a suo tempo dalla Fiat a un fondo di private equity che lo rigirò all’attuale proprietario, l’altro fondo internazionale Cinven, che ora sta appunto cedendo l’azienda. Qui c’è poco da fare: la proprietà è privata, è già straniera, e fa quello che vuole: in verità, attraverso quel suo 14%, il Governo potrebbe esercitare la “golden share” e nessuno se ne potrebbe risentire, visto l’uso che ne hanno fatto molti altri stati europei in questi anni, ma certo sarebbe necessario che il “sistema Italia” esprimesse qualche valida alternativa. Anche in questo caso, era pronto il Fondo strategico italiano, in cordata col fondo privato italiano Clessidra, che aveva avanzato un’offerta, ma anche qui i venditori (quindi Cinven, non trattenuto però dal consocio Finmeccanica) ha lasciato cadere l’ipotesi e ha concentrato le trattative con il colosso americano General Electric, che con tutta probabilità si papperà il gioiello nazionale, salvo un pezzetto di attività avioniche che forse verrà concesso allo stesso Fondo strategico come una sorta di ”premio di consolazione”.
Comunque si guardi a questo rigiro di partecipazioni e vendite, vere, promesse o sperate, ne risulta l’assenza di una politica industriale comprensibile. E anche una certa carenza di coordinamento tra le diverse istituzioni economiche di area pubblica coinvolte. Non è certo questo, per il governo Monti, il momento giusto per rimediare. Una politica industriale nazionale non s’inventa su due piedi per salvare due operazioni specifiche. E poi c’era e c’è ben altro da fare. Un anno fa, salvare il Paese dal mondo-spread; oggi, candidarsi senza candidarsi.
Lo scioglimento delle Camere è imminente. Peccato che il Governo non c’abbia pensato prima, a delineare una sua politica industriale: se ne avverte la mancanza.