La Banca d’Italia ha “parcheggiato” ieri presso il Fondo strategico italiano il 4,5% detenuto dal Fondo Pensioni in Generali. Si può parlare impropriamente di parcheggio, anche se via Nazionale riceverà entro aprile un pacchetto di azioni, non si sa se ordinarie o privilegio, del Fondo in cambio dei titoli Generali. Ma il venditore, pubblico, ha concordato una serie infinita di paletti sulla sorte futura delle sue azioni del Leone da ricordare le servitù medievali; Cdp dovrà cedere il pacchetto entro tre anni. Nel frattempo, dovrà uniformare le sue scelte al voto dei consiglieri indipendenti designati dall’Assogestioni che per presidente ha Domenico Siniscalco, oggi ai piani alti di Morgan Stanley.



Insomma, una sorta di mezzadria che tradisce la necessità di non urtare, nemmeno in via ipotetica, gli equilibri pubblico/privato nella finanza italiana, pur fragile e affamata di capitali. Una soluzione bizantina che nasce però da un intento meritorio: evitare fin dall’inizio il sospetto di conflitto di interesse che nasce dal fatto che dal 1° gennaio il compito di vigilare sul comparto assicurativo passa dall’Isvap all’Ivass, ovvero nelle mani del direttore generale della Banca d’Italia. Insomma, l’intento non è certo il vassallaggio della Cdp o l’allargamento dell’area pubblica. Ma la soluzione individuata dimostra che, per ora, non esistono le condizioni per collocare questo pacchetto nell’area privata. Tra tre anni, si spera, le cose saranno cambiate. O si troverà qualche socio, vecchio o nuovo, intenzionato a investire in quel di Trieste. O il mercato finanziario sarà in grado di digerire, presso investitori istituzionali o privati, un’offerta attorno al miliardo di euro. Per ora, però, non si può.



Certo, pesano le condizioni particolari delle Generali, appena uscite da un conflitto sotterraneo tra management e azionisti legato alla partita Fonsai che sta emergendo sulle colonne dei giornali. Non va trascurato il fatto che la compagnia ha appena iniziato una profonda ristrutturazione che non appare poi così facile e agevole sulla carta, come dimostra la minaccia di downgrading da parte di Moody’s. Ma le condizioni di debolezza del mercato finanziario italiano non si limitano alla partita di Trieste.

Ieri mattina Finmeccanica, ad esempio, ha preso atto che l’offerta del Fondo strategico (sempre lui…) e dei privati italiani per Ansaldo Energia altro non era che una raccolta di buone intenzioni non accompagnata da una precisa offerta cash. Non è poi così dissimile la situazione sul fronte del cantiere della banda larga: o interviene la Cdp (prospettiva meno facile di quel che non lascino intendere le dichiarazioni dei protagonisti) oppure i lavori non partono.



A proposito di aumenti di capitale, poi, il mercato finanziario ha espresso la sua posizione in maniera eloquente al primo rumor, poi smentito, su un eventuale aumento di capitale Fiat: una brusca caduta del 5% nel giro di una mattinata. Eppure, un’operazione mirata ad accorciare i tempi dell’acquisto dell’intero capitale Chrysler avrebbe meritato, in altri momenti, una diversa attenzione. Oggi, però, come dimostra la scelta di Banca d’Italia, non bisogna farsi troppe illusioni: viviamo in epoca di siccità, in quanto a capitali nostrani. Con effetti paradossali. Come ci informa Il Corriere della Sera, la Guardia di Finanza a Chiasso recupera ormai più quattrini in rientro in Italia (magari per pagare le tasse) che in uscita. Anche perché, salvo la malavita organizzata, ben pochi, se non le aziende dotate di una struttura internazionale, hanno accumulato fondi da espatriare…

Si può arruolare un mago della pioggia in grado di far cessare la siccità di capitali? Non è questione di magie. Basta guardare a quel che capita nel mondo. L’esempio virtuoso arriva dagli Usa. Proprio ieri General Motors ha smesso di chiamarsi Government Motors. Ovvero la casa di Detroit ha riscattato il 5,5% del capitale in mano al Tesoro Usa. Il prezzo pagato per i 200 milioni di titoli (il 7% in più delle quotazioni di Wall Street) ripaga solo in parte Washington dai sacrifici affrontati nel 2008. L’affare Gm, per l’amministrazione Usa, è stato meno redditizio di quello Chrysler che ha ripagato prima e meglio l’azionista pubblico. In mano al governo federale, poi, restano ancora 300 milioni di “pezzi” che Obama conta di vendere entro 12-15 mesi.

Ma l’operazione Gm segue di pochi giorni la cessione al mercato, a prezzi assai vantaggiosi, dell’Aig, il colosso assicurativo salvato nel 2008 evitando il collasso del sistema finanziario. Nel frattempo, non passa giorno senza che una corporation non annunci il rientro di investimento negli States, grazie al recupero di competitività del sistema produttivo. Clamoroso l’annuncio di Apple, che torna a produrre in patria senza tradire i partner cinesi: le fabbriche americane di Apple saranno gestite da Foxconn, il gruppo di Taiwan che gestisce la produzione in Cina.

Nel mondo che cerca di uscire dal tunnel della crisi, la globalizzazione assume forme nuove: Nissan moltiplica gli investimenti nello stabilimento inglese di Sunderland, visto che le tute blu inglesi sono più efficienti e meno costose di quelle made in Japan. Intanto gli investimenti in tecnologia hanno cambiato per l’ennesima volta l’orizzonte del manufacturing: lo scambio di informazioni permette di dotarsi di fabbriche piccole e pulite che possono consentire di produrre anche nel cuore delle grandi città senza danni per l’ambiente, ma molti vantaggi per il tessuto urbano. Succede negli States, ma anche in Europa. E la Cina vuol bruciare le tappe anche in materia di sostenibilità.

E l’Italia? Il Paese ha le carte in regola per agganciare la ripresa. Ci vorrà tempo, ma, come dimostra il caso americano, i risultati prima o poi arriveranno. Purché finalmente si sblocchino i freni che tengono inchiodata la base produttiva del Paese. O una mentalità finanziaria giurassica, che non contempla altro che la difesa dei santuari esistenti e che si impoveriscono sempre di più. Meglio, infine, adottare il new look Usa nella caccia all’evasione: inutile inseguire i soldi degli emigranti messicani. Meglio guardare ai paradisi fiscali in cui, in piena legalità, affluiscono i profitti di Google, Apple o Microsoft: meglio consultare l‘annuario delle fiduciarie del Lussemburgo piuttosto di un redditest.