Per le aziende italiane, il prossimo anno potrebbe rivelarsi ancora peggiore di questo che si accinge a conclusione. I tanto auspicati sgravi fiscali e alleggerimenti vari resteranno lettera morta. Dal 2013, infatti, l’Imu sugli alberghi e sui fabbricati classificabili nel gruppo catastale “D”, quelli posseduti dalle imprese, resterà interamente allo Stato. Ma il Comune avrà facoltà di applicare un’aliquota aggiuntiva dello 0,3%. Tutto trama perché sarà l’ipotesi maggiormente presa in considerazione. Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, ci spiega perché.

I Comuni potrebbe realmente scegliere di introdurre l’aliquota aggiuntiva di loro competenza?

Molto probabilmente sì. Perché lo hanno già fatto. Anche in questa tornata, infatti, disponevano di un margine di discrezionalità ampio. Potevano incrementarla fino all’1,06% o allo 0,46%. Sempre di 0,03 punti percentuali, comunque. La stragrande maggioranza dei Comuni sui quali abbiamo effettuato delle indagini ha optato per la prima scelta. L’83% ha deciso di aumentarla. E il 33% l’ha aumentata al massimo.

Quindi, le non crede che vi siano dei margini per procedere con limature?

Qualche spazio esiste ancora. Non dimentichiamo, tuttavia, che Monti ha promesso che dal 2013 l’Imu resterà interamente ai Comuni.

E questa non è un cosa buona?

Beh, l’operazione sarà effettuata tagliando i trasferimenti. In linea teorica, il saldo dovrebbe restare pari a zero. Non è escluso, tuttavia, che la confusione possa produrre effetti indesiderati.

In ogni caso, finora quanto ha pesato l’Imu per le imprese?

C’è stato un aumento medio di 1400-1500 euro. Ma, in alcuni alberghi, è stato tra gli 8 e i 12mila euro.

C’è il rischio che la tassa affossi ulteriormente le aziende italiane?

Andiamo con ordine: le aziende sono in crisi perché sono in crisi i consumi. Sono bassi e non accennano a riprendersi. Dall’inizio della crisi abbiamo perso il 6,7% del Pil. A questo si sommano: il credit crunch, l’estrema difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di accesso al credito da parte delle aziende; il mancato pagamento dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni; un aumento generalizzato dell’imposizione fiscale.

Quindi? Come si inserisce in un tale contesto l’Imu?

Potrebbe rappresentare la fatidica pagliuzza che spezza la schiena dell’asino.

 

D’altro canto, i Comuni, le cui risorse scarseggiano, che alternative hanno all’aumento?

 

In realtà, i Comuni virtuosi, con i bilanci in ordine, sono tanti. In ogni caso, rischiano effettivamente di essere messi in ginocchio perché colpiti da una dimenticanza su alcuni principi elementari dell’economia. Mi spiego: il taglio dei trasferimenti dovrebbe essere compensato dal godimento dell’Imu. Ma, mentre i trasferimenti erano certi, le risorse provenienti dall’imposta sugli immobili non lo sono. Molti imprenditori in difficoltà o costretti a dichiarare fallimento, potrebbero, ad esempio, non essere in grado di pagare l’imposta sui propri capannoni. Ci si è dimenticato, in sostanza, che in una fase congiunturale negativa, il gettito fiscale è spesso destinato a diminuire. E che, già adesso, esiste un fattore che impedisce loro di erogare servizi decenti.

 

Ovvero?

 

Il patto di stabilità. In virtù del quale, molti comuni, pur disponendo delle risorse necessarie, non possono procedere alle operazioni di normale amministrazione, quali il ripristino, il restauro e il mantenimento delle infrastrutture. Se crolla un ponte, non è possibile ripararlo. C’è da sperare soltanto che si capisca che è necessario invertire radicalmente il trend: come ha evidenziato il Fmi, in 173 casi in cui dei paesi, in una fase economica negativa, hanno aumento le tasse e tagliato la spesa pubblica, gli effetti sono consistiti in una perdita di posti di lavoro e nell’avviamento di una fase recessiva.

 

(Paolo Nessi)