Il rally dei titoli di Stato seguito alla maxi-iniezione di liquidità operata dalla Bce, che ha prestato a 800 banche europee 530 miliardi di euro per tre anni al tasso dell’1%, dimostra che anche stavolta, come logico e prevedibile, i quattrini stanno prendendo la via che porta ai Btp, ai Bonos spagnoli e, magari, anche agli Oat francesi, cui non fanno bene le sortite preelettorali di François Hollande.
Cala il rendimento dei Btp decennali al 5,05%, a un passo dal rientro nella zona di sicurezza: come si è detto e ripetuto nei mesi della crisi più acuta, il debito italiano non può reggere all’infinito tassi superiori al 5%. Ancor più sensazionale, il formidabile recupero del titolo biennale, che rende solo l’1,84%, a conferma che gli acquisti dei banchieri, pur innaffiati di abbondante liquidità all’1% sui tre anni, preferiscono prudentemente scadenze più brevi, ma a rischio zero.
C’è, in linea di principio, un’anomalia immorale nel fatto di finanziare all’1% a tre anni banche che scelgono di incassare lo 0,84% di interesse a due anni (ovvero l’1,25% circa a tre anni), lucrando una rendita di posizione a zero rischio. In termini politici è la conferma che, nonostante la mossa brillante e salvifica di Mario Draghi e l’accordo sulla Grecia, i mercati finanziari, a partire dalle banche, restano scettici sul futuro dell’Eurozona. La mossa della Bce ha consentito all’Europa di guadagnare tre anni di tempo per avviare una riforma vera delle istituzioni, non solo economica. Ma le banche, come san Tommaso, prima di convertisi ad “animal spirits” più coraggiosi aspettano di vedere i frutti, cansapevoli che la partita non sarà facile.
L’iter del decreto italiano sulle liberalizzazioni, del resto, è un buon esempio del difficile cammino delle riforme in società democratiche, come sanno bene le banche che hanno utilizzato con grande efficacia le proprie lobby per tamponare gli effetti più costosi del provvedimento. Eppure, pare difficile che i conti di istituti letteralmente salvati dalla Bce possano esser compromessi dall’apertura di conti correnti ai pensionati sotto i 1.500 euro. O dall’obbligo di presentare due distinti preventivi assicurativi ai propri clienti.
Questa cornice permette, in parte, di spiegare perché finora la pioggia di denaro in arrivo dalla Bce non si è ancora tradotta in maggiori finanziamenti alle imprese. Anzi, in questi mesi si è assistito a un peggioramento del fenomeno, che è destinato a durare, a detta degli esperti, ancora. Nel bimestre dicembre-gennaio, secondo quanto si legge nel Bollettino della Banca d’Italia, le banche italiane hanno infatti acquistato titoli di Stato per 32,6 miliardi. Nello stesso periodo, i prestiti bancari alle imprese e alle famiglie italiane si sono ridotti di 20 miliardi. La maggior parte dei quattrini ricevuti dalla Bce (116 miliardi che, al netto di precedenti rimborsi, scendono a 57) hanno preso la via dei titoli di Stato o del rinnovo delle obbligazioni bancarie.
Non solo. Nel gennaio di quest’anno, si legge ancora sul Bollettino di Banca d’Italia, il costo dei finanziamenti alle imprese (nuove operazioni) era di 1,3 punti percentuali più alto rispetto allo stesso mese del 2011 (passando dal 2,7% al 4%), nonostante nel corso degli ultimi 12 mesi il costo del denato per le banche non sia aumentato. Nello stesso periodo, il tasso d’interesse sui mutui immobiliari è salito di un punto percentuale (dal 3,15% al 4,15%), nonostante non ci sia stata impennata delle sofferenze o della rischiosità dei prestiti. Insomma, le banche hanno prestato soprattutto allo Stato e a se stesse, facendo fronte alle obbligazioni in scadenza. Alle famiglie e, soprattutto, alle imporese sono rimaste le briciole. Vendute, però, a peso d’oro.
Non mancano motivi per spiegare “l’avarizia” delle banche: il clima di recessione incide sulla richiesta di impieghi da parte delle imprese sane; la necessità di maggiori accantonamenti a fronte della crescita di incagli e sofferenze; la minor redditività dell’attività di banca commerciale rispetto ad altri impieghi del denaro. Più di tutto vale una considerazione: la Bce ha fatto “prestiti”, scongiurando il collasso della liquidità, ma questi prestiti andranno restituiti. Gli impieghi, come prevedono le regole di Basilea, vanno commisurati al capitale disponibili. E, si sa, dopo la crisi dei subprime e l’abuso del leverage da parte del sistema bancario, i criteri sono oggi assai più rigidi. E le banche, semmai, sono spinte dalle nuove regole dell’Eba a ridurre l’esposizione verso le imprese, e non viceversa.
Intanto, inutile nasconderlo, gli anni di crisi hanno avuto come riflesso un aumento abnorme delle sofferenze occulte, ovvero dei crediti difficilmente esigibili che le banche non girano al contenzioso per non dover ammettere nuove perdite. Non è la situazione ideale per distribuire nuovi quattrini come la manna piovuta dal cielo. La cautela “politica” combinata con le spiegazioni “tecniche” hanno condotto a una nuova emergenza: la stretta sulle Pmi rischia di portare al fallimento migliaia di piccole imprese tendenzialmente sane, che da una parte vantano crediti crescenti verso le amministrazioni pubbliche, dall’altra incassano sempre meno e più tardi dalle controparti privati. Infine, quando bussano alla banca, rischiano di ricevere un sollecito al rientro piuttosto che una nuova erogazione di fondi. Oppure, più spesso ancora, devono far fronte a richieste di tassi che vanificano in partenza un profitto sempre più incerto. Il rischio è che si sfaldino unità d’impresa che non sarà facile ricostituire in futuro.
Accanto ai prestiti della Bce che, come già detto, servono a guadagnare tempo occorrono interventi strutturali, attraverso i Confidi (quasi “nascosti” dalle banche), stimoli all’ingresso di capitali saltando la mediazione bancaria. O un uso aggresivo della leva fiscale per difendere l’esistenza di chi dà lavoro.