Lo slogan è “non smettere di pedalare” e i giornali già sfoderano metafore ciclistiche: fotofinish, vittoria in volata, a ruota e via di questo passo. Giorgio Squinzi, del resto, con la sua Mapei sponsorizza una importante squadra che miete vittorie in tutta Europa. Lo spirito sportivo è una dote per chi guiderà la Confindustria nei prossimi quattro anni nei quali “il sindacato del capitale” avrà bisogno di una bella mano di vernice e di collante, proprio le specialità che hanno segnato il successo industriale dell’azienda chimica lombarda. La giunta, infatti, si è divisa e Squinzi è prevalso per pochi voti: 93 contro 82. Decisivo è stato l’appoggio dell’Eni, che ha portato con sé un pacchetto di sei voti. E con il colosso energetico, il più grande gruppo affiliato dopo l’uscita della Fiat, si sono schierate tutte le aziende pubbliche (Enel, Poste, Ferrovie) tranne Finmeccanica, il Lazio, le associazioni del sud. Assolombarda si è spaccata, con maggioranza a Squinzi, Piemonte, Friuli, Veneto, Emilia, Marche sono per Alberto Bombassei. Una curiosa frattura tra l’Italia assistenziale e quella produttiva, anche se il vincitore non è certo un manager delle partecipazioni statali, un boiardo di Stato o un grand commis. Tutto il contrario. Nordista fino al midollo, un vero patron che ha costruito una multinazionale importante, anche se non un colosso, basandosi sul lavoro, sull’innovazione, sulla creatività industriale. Niente trasferimenti statali, né incentivi a fondo perduto, insomma. 



Il successo al fotofinsh impone un primo obiettivo, di qui al 19 aprile, giorno in cui dovrà presentare squadra e programma: recuperare gli uomini e le idee che hanno sostenuto il suo avversario. Non per un generico unanimismo, ma per non creare un conflitto territoriale e industriale che sarebbe un marchio negativo per l’intera presidenza. In questa operazione direpechage, rientra per forza di cose anche la Fiat. Sergio Marchionne si è impegnato con Mario Monti a mantenere in Italia i due stabilimenti a rischio, Mirafiori e Pomigliano. Un rientro in Confindustria potrebbe essere un’ulteriore conferma che non vuole tirare troppo la corda.



Del resto, il governo sta togliendo parecchie castagne dal fuoco, a cominciare dalla più bollente di tutte, l’articolo 18 della legge 300 (Statuto dei lavoratori). È stato uno dei maggiori punti di distinzione anche nella campagna confindustriale: secondo Squinzi non è una priorità oggi per le imprese, al contrario Bombassei si è dichiarato per la sua abolizione. La maggioranza, sia pur risicata, della giunta si è schierata con la prima tesi, paradossalmente più vicina al Pd e alla Cgil che non a Elsa Fornero o al Pdl. Machiavelliche triangolazioni? O solo gran confusione? Forse un po’ e un po’. Perché l’associazione degli industriali è in cerca di una chiara strategia. Tanto più oggi che sta tramontando lo schema nel quale aveva trovato una ragion d’essere da un quarto di secolo a questa parte: la concertazione triangolare con governo e sindacati, praticamente su tutto, politica del lavoro, fisco, trasferimenti pubblici, incentivi, persino riforme istituzionali. 



La politicizzazione della più grande lobby che controlla anche mezzi di comunicazione di massa, è andata di pari passo con la reale perdita di peso alla base della piramide. La crisi della fabbrica fordista ha segnato il declino di tutte le rappresentanze sindacali, quella dei lavoratori come quella dei datori di lavoro. Ciò mentre ormai la distribuzione del valore aggiunto tra salari e profitti è determinata non dai rapporti di forza dentro l’impresa, o su base nazionale, ma dalla concorrenza mondiale. Quando la globalizzazione consente di fare tutto ovunque allo stesso modo e l’unica variabile davvero fondamentale è il costo del lavoro, regolato in modo esogeno dai paesi nei quali è più basso e (soprattutto) più flessibile, ebbene che senso ha contrattare la politica dei redditi su base nazionale? E come si fa a salvare il welfare state, le protezioni, le conquiste realizzate quando i mondi erano quattro (capitalista, comunista, in via di sviluppo, povero) divisi tra loro? Il triangolo neocorporativo non solo è perverso, ma ormai diventa inutile. In fondo è quel che dicono i globalisti come Mario Monti.

Le confederazioni del lavoro e del capitale, per ritrovare un senso, dovrebbero darsi una dimensione internazionale, cercare punti di incontro e linee comuni, quanto meno su base europea. Debbono lanciarsi in ardite visioni di una grande riconversione produttiva dell’Occidente per tenere il passo con la rivincita dell’Oriente, chiamando attorno a sé i migliori cervelli liberi di pensare l’impensabile. La Confindustria ha addirittura una università, possiede una casa editrice, una radio, un giornale, dovrebbe essere in grado di sfornare idee, suggestioni, analisi innovative. Ha le risorse per attirare penne vagabonde e premi Nobel in grado di scuotere la dittatura del senso comune.

I lacci e lacciuoli che oggi tengono l’Italia in una posizione marginale, riguardano certo le rigidità del mercato del lavoro e un peso eccessivo del fisco sul mondo della produzione, ma anche le mancate liberalizzazioni, il potere dei monopoli pubblici, l’inefficienza abissale dei servizi, il decadimento delle infrastrutture, tariffe troppo elevate, tutte colpe che ricadono sui governi o sul peso opprimente della burocrazia pubblica, e nello stesso tempo sui comportamenti degli stessi associati alla Confindustria i quali possiedono ormai autostrade, gasdotti, centrali energetiche, reti telefoniche. Dunque, cosa possono fare per il Paese gli imprenditori che chiedono sempre cosa il Paese può fare per loro?

Non si può gettare tutto sulle spalle di Squinzi, ma il fatto è che gli capita di guidare una organizzazione in profonda crisi d’identità. Oltre alla voglia di spingere i pedali, bisogna mettere in campo una visione, un traguardo (e vai con il ciclismo), una strategia per raggiungerlo. Finita la stagione dei concerti (in senso politico-sociale) deve cominciare quella delle idee. In questo senso, il periodo storico al quale far riferimento è il secondo dopoguerra. 

Anche oggi c’è una ricostruzione da compiere. Le macerie sono meno fisiche e più economico-sociali, ma certo l’Italia deve reinventare il proprio modello. Ci vuole un quinto capitalismo. Il primo, quello storico, è tramontato. Il secondo, quello pubblico, è improponibile. Il terzo, il decentramento produttivo, i cespugli, i distretti, ha fatto il suo tempo. Il quarto, quello del quale Squinzi è un campione, cioè le medie imprese con forte vocazione all’export, ha dato il meglio fino alla grande crisi del 2008. Adesso si è aperta una fase nuova, una transizione. Ma sappiamo da dove stiamo venendo, non sappiamo dove andare. Gli industriali, come parte importante della classe dirigente, hanno il dovere di tracciare una rotta.