“Siamo nel pieno di una seconda recessione e questo trend, se dobbiamo prendere per buone le previsioni, durerà tutto l’anno”. Se qualcuno si fosse illuso che il peggio fosse alle spalle, le parole di Corrado Passera in Parlamento sono state un brusco risveglio Anzi, i toni draconiani del ministro fanno eco all’intransigenza che dall’Asia ostenta il premier Mario Monti: la partita sulla riforma del lavoro non potrà chiudersi con una finta pace “all’italiana” che accontenti tutti, lo chiede l’economia. Meglio ancora, lo chiede la mai dimenticata lettera della Bce dello scroso agosto.
Chi s’illudeva che fosse un inghippo per toglier di mezzo Silvio Berlusconi deve rifare i conti: stavolta, se si vuol restare nel giro dei paesi che contano, bisogna procedere lungo la strada “delle riforme strutturali”. Forse, come recitano le “colombe” alla Giorgio Squinzi, l’articolo 18 è un falso problema, ma è arduo pensare che il Paese possa affrontare i “veri problemi” (burocrazia, malavità, disservizi della Pubblica amministrazione, infrastrutture e così via) se alla prima prova vera il governo dovesse inchinarsi alla forza della lobby sindacale e alle opportunità elettorali, pur legittime, del Pd.
Insomma, come ricorda Corrado Passera, la barca non va. Per riprendere la navigazione manca la benzina, ovvero i denari per avviare un ciclo virtuoso di investimenti. Anzi, lo stesso ministro deve candidamente confessare che buona parte del recupero delle pubbliche finanze del Bel Paese è legato al ritardo mostruoso del “non pagato” alle imprese, da parte della Pubblica Amministrazione, la fetta più rilevante dei crediti lamentato dalle imprese. Di qui un circolo vizioso che si traduce in più oneri finanziari, stretta delle banche e, complice il rinnovato attivismo dell’Agenzia delle Entrate, in disperazione per molti piccoli imprenditori.
Da questo circolo vizioso si esce in un solo modo: avviando un ciclo virtuoso di investimenti che, a sua volta, richiede un Paese in grado di favorire l’accumulazione di capitali per servire prima i mercati internazionali, poi, una volta riavviato lo sviluppo, la ripresa dei consumi. Un paradigma che può funzionare, purché la società italiana privilegi la partita della crescita a quella dei “diritti acquisiti”. E purché la congiuntura internazionale volga finalmente al bello. Cosa di cui, ahimè, per ora non v’è alcuna certezza.
In questi giorni, infatti, tre incognite pesano sui cieli della finanza globale.
1) Le scelte della politica monetaria americana a loro volta condizionate dalla forza della ripresa Usa (ieri è arrivata la conferma del definitivo +3% del Pil nell’ultimo trimestre del 2011). Nell’ultima settimana Ben Bernanke, di solito sobrio nelle sue apparizioni pubbliche, ha parlato due volte davanti alle telecamere, quattro davanti agli studenti, più un’uscita ad Arlington davanti a un’associazione di imprenditori. Tanto attivismo rivela la volontà di trasmettere un messaggio preciso all’opinione pubblica e al mondo politico americano: non scherzate con il fuoco, la crisi non è domata. L’occupazione, certo, mostra segnali di ripresa (sono scese ancora le richieste di sussidio di disoccupazione). Ma è occupazione precaria, di basso profilo. Niente a che vedere con un trend che ribalti le paure degli ultimi anni e incida sulle scelte delle famiglie in termini di ripresa degli acquisti, soprattutto sul fronte della casa. Qualcosa, in realtà, dopo quattro anni di drastici tagli alla base produttiva, si rivede. Ma il cantiere poggia su basi fragili che vanno innaffiate da costanti iniezioni di liquidità.
La morale? La Fed non abbassa la guardia. Il 2012 non sarà il 1937, quando la banca centrale rialzò i tassi provocando una violenta ricaduta della recessione. Un messaggio consolatorio per Wall Street, ma solo fino a un certo punto. Se a metà aprile, quando usciranno i dati definitivi sul Pil Usa del primo trimestre, non si vedrà una svolta, i fantasmi della recessione potrebbero rifarsi vivi negli Usa. Anche perché si avvicina la fine dei tagli fiscali dell’era Bush, in parallelo con l’esame della Corte suprema sulla riforma sanitaria voluta da Obama. Insomma, anche al di là dell’Oceano, l’economia rischia di essere ostaggio dell’assenza di leadership politica.
2) La questione è tanto più attuale se si pensa a quel che accade a Oriente. La Borsa di Shangai, in forte discesa, sottolinea il malessere della “China spa”. Dopo un anno di stretta monetaria per combattere l’inflazione e di crisi dei profitti e dei volumi dell’export verso l’Europa, una fetta rilevante dell’economia cinese mostra segnali di frenata. Le conseguenze? Esclusione dal mercato del lavoro dei lavoratori del sud-est industriale; crisi del mercato immobiliare; boom delle sofferenze. Sullo sfondo il conflitto che precede il congresso del partito che, fino a ottobre, renderà impossibili scelte definitive sul fronte delle liberalizzazioni o, all’opposto, dei salvataggi di Stato.
3) In Europa, al solito, la situazione è a un punto di svolta. Tra sabato e domenica si capirà fino a che punto la Germania, appagata per l’imposizione del Fiscal Compact al resto dell’Ue, si dichiarerà disposta a collaborare al muro di sicurezza, il Firewall, anticrisi. Le ultime voci parlano di un tesoretto di 240 miliardi, meno delle richieste di Bruxelles, più di quanto la Germania sembrava pronta a versare. Al di là delle caratteristiche dell’accordo (fondo stabile o temporaneo, durata un anno, come vorrebbe Angela Merkel), sarà però decisivo capire la capacità di manovra e di decisione degli esecutivi dei due paesi chiave dell’attuale crisi: la Spagna di Mariano Rajoy, indebolita dal voto e dallo sciopero, ma ancor di più dalla diffidenza dei mercati verso le sue scelte espansive; l’Italia di Mario Monti. In questo caso la reputazione del Premier rischia di trasformarsi in un boomerang di incontrollata potenza nel caso che il governo dei tecnici debba alzare bandiera bianca o (cosa che Monti difficilmente accetterà) abbassare la portata dei suoi obiettivi.
Tutto questo potrebbe tradursi in una nuova emergenza sui titoli di Stato che, speriamo, verrà scongiurata dal buon senso. Ma resterà la realtà di un Paese che, nel migliore dei casi, crescerà dello 0,1% nel prossimo trimestre. E forse anche in quelli successivi. È inutile sperare, insomma, che dalla ripresa internazionale possa arrivare più di una ciambella di salvataggio per l’esistente. Inventare un futuro per il nostro Paese (e i nostri giovani) tocca a noi soltanto. Ci pensi chi continua ad accampare la questione dei “diritti” che non riguardano fette crescenti della popolazione.