Finalmente, dopo tanta enfasi sul “Fiscal Compact” nel vocabolario europeo trova posto il “Growth Compact”. Ne ha parlato, con accenti forti per un banchiere, il numero uno della Banca centrale europea, Mario Draghi. Ne parla perfino frau Angela Merkel in una riunione di partito a Berlino, riconoscendo che l’austerità da sola non serve a risolvere i problemi del Vecchio Continente. Però occorrono, aggiunge la Cancelliera, “riforme strutturali” mica stimoli economici che si alimentano di nuovi debiti pubblici.
La posizione tedesca, insomma, non cambia granché, ma il solo fatto di sentir la parola sviluppo uscire dalle labbra di frau Angela fa notizia. Soprattutto se coincide con l’enfasi data ai colloqui italo-tedeschi, in corso da mesi, per tradurre in concreto le ricette elaborate da uno studioso italiano, tal Mario Monti, ai tempi consulente dell’Ue, che da sempre insiste sulla necessità di dar vita a un mercato interno vero, abolendo le “tasse occulte” che rendono la Germania un Paese assai più chiuso di quel che non appaia.
Perché questa conversione? Al solito, le ragioni sono più d’una. L’asse Roma-Berlino, sul piano politico, trova la sua spiegazione in quel di Parigi. La prospettiva di un successo elettorale di François Hollande rimette in discussione la “road map” concordata, a fatica, l’inverno scorso. Qualcosa va cambiato di sicuro, sul fronte dello sviluppo. Anche perché il rigore tedesco rischia di perder pezzi per strada. Mica nel Sud Europa, dove Spagna e Italia hanno ormai intrapreso la strada dell’espiazione e dell’austerità. E non solo nella frivola Francia dove per mesi ci si è baloccati nell’idea di abbassare l’età pensionabile piuttosto che di tassare i ricchi fino al 100%. Anche l’austera Olanda, da sempre il pasdaràn preferito dalla Bundesbank, scricchiola, mentre l’Irlanda, lo scolaro modello che per primo si è piegato al diktat della banca centrale tedesca, presenta conti “equivoci”: il miglioramento dei conti pubblici è frutto di un inghippo alla greca, cioè il trasferimento dei debiti a un’agenzia privata solo sulla carta.
Insomma, la Merkel non può permettersi di tener fuori dalla porta la Francia socialista. Nello stesso tempo, i falchi della Bundesbank perdono quota nel dibattito tedesco. Si apre uno spazio in cui può infilarsi di nuovo Mario Monti, recuperando quello smalto che si è un po’ appannato in patria a causa dei prezzi dell’austerità.
E qui la politica deve lasciare spazio all’economia. L’austerità imposta dalla Bundesbank ha avuto effetti più profondi (e devastanti) del previsto. Sulla scrivania di Draghi è arrivato un report inquietante: dopo le iniezioni di denaro a prestito alle banche da parte della Bce, l’offerta di credito si è mantenuta su livelli “normali”. Ma, ahimè, è crollata la domanda: -30%. Ovvero le aziende chiudono i battenti, le famiglie rallentano investimenti e consumi. La trappola della liquidità rischia di contagiare l’Europa. Con effetti devastanti. Non solo l’Italia viaggia verso un calo del Pil dell’1,9% secondo il Fmi, ma il miraggio del pareggio di bilancio, vista la rapidità della caduta dei redditi e delle entrate fiscali, è già stato spostato nel tempo. Intanto, altri paesi tra cui il Regno Unito, stanno entrando ufficialmente in recessione, andando a far compagnia alla periferia del Sud Europa.
Di qui la necessità di imporre il “Growth Compact” in cima all’agenda politica. Ma con quali margini? Per contrastare la recessione occorrono capitali. Ma chi li mette? Noi no, è stata finora la risposta della Germania. Primo, perché abbiamo già dato. Secondo, perché sarebbero soldi sprecati, se nel frattempo i partners non faranno pulizia in casa. Noi no, replicano gli Usa. Primo, perché abbiamo i nostri problemi: il vertice della Federal Reserve si è chiuso confermando la politica di costo del denaro quasi a zero, che presuppone la necessità di attrarre capitali sul dollaro per sostenere la convalescenza del gigante Usa, ancora malato. Al punto che la banca centrale riconosce che nel 2014 la disoccupazione sarà ancora un problema strutturale. È assurdo pensare, in questa cornice, che gli States si diano da fare per un piano Marshall per l’Europa. Noi no, aggiungono gli emergenti. Primo, perché un cittadino brasiliano o ancor più un cinese hanno un tenore di vita ben inferiore a un disoccupato greco o italiano. Secondo, perché l’Europa rifiuta la stessa ricetta che, nel recente passato, ha imposto all’America Latina e all’Asia. Tirate la cinghia, che non fa male.
Insomma, è difficile che l’Europa possa tirarsi fuori dalla crisi con la ricetta seguita nell’ultimo mezzo secolo: spesa pubblica alimentata dal debito. O con la variante anglosassone, più consumi privati a credito. A lungo termine, l’unica via praticabile è di rimettere in circolo le (poche) risorse a disposizione, preoccupandosi di impiegarle nel modo migliore. E di far sì che, in questo modo, i paesi con un’eccedenza di bilancio, vuoi i Brics, vuoi altri nuovi competitors, trovino convenienza a investire dalle nostre parti.
Nel breve, in attesa che la politica trovi un suo equilibrio tra un’elezione e l’altra, Mario Draghi non potrà che battere due strade: da un lato, assieme all’Eba, impegnarsi per mettere ordine nel sistema bancario europeo dove non mancano situazioni a rischio (basti pensare alla leva finanziaria della Deutsche Bank), fornendo al sistema la liquidità necessaria. Dall’altro, garantire a paesi come Italia e Spagna quei fondi che, da un anno abbondante, le banche del Nord Europa negano. Sperando che, con il tempo, si riattivino gli animal spirits del capitalismo, oggi troppo spaventati per intraprendere nella vecchia Europa.
Per questo ben venga l’iniezione di ottimismo dell’asse Berlino-Roma o la ventata di novità un po’ giacobina in arrivo da Parigi. Ma nessuno s’illuda: la Quaresima è destinata a durare un bel po’.