Una bella azienda a Lentate sul Seveso, dove sono tutti soci, e producono mobili in massello. Una scelta fatta da tempo: vivere soprattutto sull’export. Oggi è una scelta che paga meglio, dato che il mercato interno italiano è sotto la sferza del rigore cieco, di marca tedesco-bocconiana. Luca Radice, come tutti gli imprenditori del legno e del mobile, si batte come “un leone” sul mercato globale, naturalmente in perfetta solitudine, “valigia in mano” e andare, «Perché se aspetti che ci sia qualche istituzione statale italiana all’estero – ci racconta – che ti possa dare una mano concreta, un appoggio, un’apertura, una credenziale, non vai da nessuna parte». L’unica vera carta che certifica il tuo valore di produttore è il “Made in Italy”, garanzia di gusto e funzionalità. È il biglietto da visita migliore. Settimana scorsa Radice ha preso parte a una missione di FerderlegnoArredo in Libano, la porta del Medio Oriente e di paesi importanti per l’export. Uno dei temi di cui si discuterà anche in occasione del Primo Forum del Legno Arredo, in programma il 4 giugno a Milano.
Com’è andata questa missione?
Bisogna essere concreti. Si vede che Beirut è una città in pieno sviluppo, ricostruita e che offre notevoli potenzialità anche perché, appunto, è una cerniera con un altro mondo, con un altro mercato. C’è una situazione problematica con la Siria, ma si capisce che il terreno è fertile. La realtà è quella che è. Noi in Libano non abbiamo più una banca, mentre fino a pochi anni fa c’era il Banco di Roma e la Banca Commerciale. Gli italiani che si trovano in Libano, e ce ne erano tanti, sono ridotti al lumicino. Ci salva e ci garantisce la tradizione italiana, il “Made in Italy”, ma un appoggio dello Stato italiano è dovuto solo alla buona volontà di qualche persona. Il funzionario dell’Ice lavora al Cairo e mensilmente si sposta in Libano. È una persona capace, si vede che è “uno sul pezzo”, ma fa quello che può.
Ma è possibile che lo Stato italiano sia così carente nell’appoggiare queste medie e piccole imprese così attive sul mercato globale? Altrove la situazione è diversa.
Guardi, a me sembra spesso di andare in guerra con un moschetto, mentre gli altri hanno i carri armati. Mi è capitato l’anno scorso in Cina: c’era il console tedesco, rappresentati di vari paesi, ma dell’Italia neppure un funzionario.
Si dice che il settore “contract”, quello dei grandi alberghi, sia un affare colossale nel mondo. Un affare però di cui gli italiani ricavano pochissimo, sebbene la stragrande maggioranza dei mobili, costruita da altri, si ispiri a modelli italiani.
È vero. Noi riusciamo a tenere il passo con le hall degli alberghi, con le sale conferenze, ma per la camera standard i nostri prezzi sono troppo alti. L’ho constatato di persona con l’Hotel Intercontinental di Mosca.
Che cosa vi preoccupa di più in questo momento, in questa situazione di crisi e di recessione?
Guardi, alla fine si riesce sempre a vendere prodotti di qualità. La scelta dell’export era dettata anche da questa consapevolezza. In questo momento noi lavoriamo poco con gli Stati Uniti, dove una volta c’era uno sbocco importante. Non è tanto il cambio euro-dollaro, (conta anche quello, ma è stato metabolizzato) quanto il crollo del settore edilizio degli Stati Uniti. Oggi esportiamo più nei Paesi dell’Est, nell’ex Unione Sovietica, ad esempio, e siamo sempre in cerca di nuovi mercati. Certo, come le dicevo manca un sostegno concreto dello Stato italiano e, a volte, sono anche gli stessi imprenditori italiani che non sanno fare gruppo. Forse perché si sentono dei solitari, forse perché non c’è un’istituzione che li consigli adeguatamente.
E i problemi con le banche?
Odio e amore. Quando c’è il sole ti danno l’ombrello, quando piove te lo tolgono. In questo momento è difficoltoso. E quello che stupisce è che, dopo cinque anni da quello che è successo, ci sia una banca come JP Morgan che scopre, per operazioni sui derivati, che ha un “buco” di due miliardi di dollari. Esiste effettivamente il credit crunch e poi vedi che le banche si lamentano sulle commissioni di scoperto. Tutto questo sembra quasi irreale nella situazione in cui viviamo.
Tutto questo naturalmente con una politica economica che ha portato una pressione fiscale quasi insopportabile.
Parlavamo prima dello Stato, dell’appoggio che ti offre lo Stato sui mercati, che ti dovrebbe offrire o farti da spalla sul mercato globale. Ma che cosa si può dire di uno Stato che pretende le tasse nel giorno giusto e nell’ora giusta e poi ritarda, di anni, sui suoi pagamenti nei confronti dei privati? Come si può giudicare un fatto del genere? In questo caso è inutile parlare e fare commenti. Noi ci muoviamo e alla fine, come la missione che abbiamo fatto in Libano, diventa tutto utile, qualche cosa porta. Ma il quadro complessivo di politica economica e di sostegno alle imprese è disarmante.
(Gianluigi Da Rold)