Vito Cornacchione è un signore di rara simpatia e un italiano che si sa adattare a ogni circostanza e a ogni avversità. Cornacchione ha un’impresa innovatrice nel campo delle costruzioni; un’innovazione che è poi la riscoperta di un’antica tradizione: costruisce case in legno. La sua azienda, Itallegno, ha undici dipendenti e opera vicino a Bologna. Il suo bacino d’utenza principale è l’Emilia Romagna, mentre tradizionalmente, in Italia, si tratta di una modalità edilizia tipica del Trentino, ove sussiste una cultura quasi simbiotica con il Tirolo, l’Austria, la Germania.
Ma come le è venuto in mente di costruire queste case in legno?
Si tratta di una realtà che, ormai, appartiene anche all’Italia; consiste nel recupero di una tradizione che si era persa. La molla vera poi è scattata dopo il terremoto dell’Aquila. Ma già si era compreso, da anni, che il costo della gestione di una casa in legno è molto inferiore agli altri tipi di costruzione. Con i pannelli fotovoltaici, una casa in legno assicura un risparmio di energia che può essere venti volte inferiore al tradizionale approvvigionamento energetico.
Come ha iniziato la sua attività?
Abbiamo cominciato 22 o 23 anni fa. Eravamo dei “coperturisti”. Facevano, cioè, le coperture in legno alle costruzioni in altro materiale. Questo lavoro lo stiamo facendo ancora, ma ci è completamente venuto a mancare perché l’edilizia, il settore delle costruzioni nel nostro Paese è ormai crollato.
Quale tipo di legno impiegate, prevalentemente, per la costruzione di queste case?
L’abete soprattutto. Ma ci sono anche altri materiali che vengono oramai trattati a livello industriale. Purtroppo, la materia prima è un problema. Il legno, per lo più, lo importiamo. In Italia, infatti, non abbiamo la cultura del bosco, della forestazione: non sappiamo dove poter tagliare, oppure non possiamo. E’ uno degli aspetti burocratici paradossali di questo Paese.
Lei lavora anche sull’export?
Non ancora. Finora abbiamo lavorato solo sul mercato interno. E’ in questo momento che abbiamo cominciato a guardarci in giro, perché la domanda interna nel nostro Paese è crollata e, appunto, in un’azienda come la mia, quel settore di “copertura” che facevamo a tutte le costruzioni è completamente saltato.
Di fronte a questa crisi come cercate di reagire?
Facendo ogni sforzo possibile. Quello di guardare all’estero è uno degli aspetti. Poi ce ne sono altri. Fortunatamente, in questo momento, non con le banche. Ho fatto una selezione clienti nel 2010 e sono sceso nel fatturato, ma ho risolto il problema degli insoluti e ho recuperato nel 2011. C’è un altro problema che, invece, è insormontabile: la burocrazia.
In che senso?
Non si può nemmeno immaginare quante norme ci siano sulle costruzioni. Credo almeno un migliaio; ma sicuramente sbaglio per difetto. In tutti i casi ci sono permessi da ottenere, carte da firmare, attese infinite sui progetti. Ma, quel che è peggio, è la miriade di uffici, competenze distribuite tra il Genio civile, le Province, le Comunità montane e tutti uffici con scarsa competenza, per usare un eufemismo. In questo momento io ho tre case fatte, da consegnare, che sono bloccate, per approvazioni di progetti che neppure capiscono. Ne ho una a Ravenna, di ben cinquecento metri quadrati, un’altra nel bolognese e un’altra all’Aquila. Basterebbero persone competenti e quattro norme. Qui siamo di fronte a montagne di carta, di permessi, di ritardi e di incompetenti. Questo è il nodo più grave, quello che deprime l’Italia. C’è un ultimo problema.
Quale?
Una pressione fiscale giunta a livelli, ormai, indecenti. Quella ufficiale, del resto, è ancora decisamente inferiore a quella reale: per un mio dipendente, a cui offro un salario modesto di 1500 euro, alla fine ne tiro fuori, tra una cosa e l’altra, 4500. Io sono stato in diversi paesi del mondo, anche a Beirut con la missione di FederlegnoArredo la scorsa settimana, o in Arabia Saudita e posso assicurare che il costo del lavoro che c’è in Italia non esiste da nessuna parte del mondo. E’ ormai insostenibile. E se non lo si capisce, alla fine sempre più aziende chiuderanno.
Una via d’uscita?
La nostra cultura, il nostro sapere, il nostro modo di lavorare. In tutto il mondo ci invidiano la classe, lo stile del “Made in Italy”, un marchio di eccellenza che tutti cercano di imitare senza successo. Basterebbe quindi sostenere e incoraggiare il nostro lavoro, le nostre produzioni. Per rilanciare l’Italia, basterebbe, in sostanza, favorire la nostra economia reale.
(Gianluigi Da Rold)