Oltre al danno, la beffa; le imprese stentano a tirare avanti e alle immani difficoltà cui sono soggette si sommano quelle provenienti dai mancati pagamenti dei loro crediti nei confronti dello Stato. Il quale, al contempo, quando deve esigere i propri, diventa efficientissimo. Sarebbero tra i 60 e i 100 miliardi di euro i debiti che le amministrazioni pubbliche hanno contratto nei confronti di migliaia di aziende italiane. Queste, molto spesso, chiudono per l’impossibilità di pagare le spese necessarie alle sopravvivenza nell’immediato, come le bollette. E a loro volta, si trovano costrette a non pagare i propri fornitori, in un circolo perverso senza fine. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, per spezzare tale circolo, ha annunciato la presentazione di un disegno di legge, in modo che sia concesso agli imprenditori che vantano crediti nei confronti dello Stato di non pagare le tasse fino all’ammontare del credito vantato. Ne abbiamo parlato con Ugo Bertone, giornalista economico.



Cosa pensa della proposta di Alfano?

Si tratta di una buona idea, ma in Italia sarebbe, purtroppo, difficilmente percorribile.

Perché?

Per intenderci: la Spagna, che è messa peggio di noi, è stata in grado di varare una legge per il pagamento alle imprese che ha già garantito dei risultati. Prevedeva che le amministrazioni pubbliche producessero un elenco delle aziende creditrici entro trenta giorni e che quelle che non si fossero ritrovate a far parte dell’elenco avessero due settimane per fare ricorso; alla magistratura, infine, è stato imposto un limite per stabilire la liceità delle richieste.



Quindi?

L’inefficienza della nostra amministrazione pubblica è tale che dubito possa essere in grado anche solo di produrre un elenco dei propri debiti nell’arco di un anno, figuriamoci in trenta giorni.

Com’è possibile, in ogni caso, che dopo mesi si stia discutendo ancora di “pro soluto” e “pro solvendo” e non sia stato sbloccato ancora un centesimo?

Il problema è che negli ultimi anni ci sono stati diversi pronunciamenti del Parlamento che imponevano tempi rapidi entro cui versare alle imprese i soldi che spettavano loro; ricordo che uno di questi fu bloccato dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti per una ragione molto semplice: lo Stato non aveva i soldi necessari. Del resto, tornando alla Spagna: la sua economia potrebbe essere commissariata dall’Ue, mentre le sue banche sono messe decisamente peggio delle nostre. Tuttavia, rispetto a noi, ha potuto disporre di margini d’azione maggiori, derivanti da un debito pubblico ammontante al 68% del Pil, conto il nostro, pari al 120%.



Quali alternative suggerisce per aiutare le imprese?

Le aziende hanno bisogno di liquidità, e subito. Non vedo altra strada, quindi, che sbloccare il rapporto con le banche. E’ necessario, cioè, che il governo le convochi attorno a un tavolo, compiendo un’azione di moral suasion affinché tornino a erogare credito alle imprese.

 

Eppure, le banche affermano di non aver mai chiuso i rubinetti del credito

 

L’enorme difficoltà ad accedere ai prestiti è stata attestata dalla Bce e dalla Banca d’Italia. L’atteggiamento degli istituti di credito genera un ulteriore problema. Proseguendo, infatti, a sostenere che tutto va bene, continuano, contestualmente, a non concedere prestiti. Un circolo vizioso. Derivante, in parte, dal fatto che si ostinano a nascondere il loro stato di salute effettivo. Detto ciò, oltre alla moral suasion, lo Stato può adottare anche un’altra ipotesi.

 

Quale?

 

Se è senza risorse, potrebbe accumularle con un piano di privatizzazioni, destinando quota dei proventi al pagamento delle imprese che ne fanno richiesta.

 

Come reagirebbero i mercati?

 

I mercati, dallo Stato italiano, non attendono altro che segnali che procedano nella direzione dello sviluppo. Se nelle casse delle imprese affluissero i soldi che spettano loro, accoglierebbero la notizia con grande entusiasmo.

 

Se niente di tutto questo dovesse essere realmente realizzato, cosa rischia il sistema imprenditoriale italiano?

 

Moltissimo. A molte imprese non resterà che chiudere. Va sottolineato che in questi casi non conta tanto la situazione reale, quanto l’aspettativa. L’imprenditore che sta lavorando, sapendo che il suo lavoro potrebbe non essere pagato, nutre la sensazione di non stare lavorando affatto, si scoraggia, chiude. La mancanza di certezza, ovviamente, colpisce particolarmente i più piccoli. 

 

(Paolo Nessi)

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