Devono essere fischiate le orecchie a molti uomini dell’establishment italiano, dopo la relazione che il nuovo Presidente di Confindusria, Giorgio Squinzi, ha fatto a Roma all’atto del suo insediamento con un 94% di consensi. Si intende per uomini dell’establishment la classe dirigente italiana in generale: certamente i politici, ma anche gli alti esponenti della burocrazia, dell’imprenditoria, del mondo finanziario, del mondo giornalistico.



Il nuovo Presidente di Confindustria ha un pregio che in questo Paese pochi si possono permettere. Non ha assolutamente “scheletri nell’armadio”, di qualsiasi tipo, non quelli a cui si pensa in senso tradizionale, ma soprattutto in campo economico e imprenditoriale. Squinzi è l’esempio concreto, carnale si potrebbe dire, di un grande imprenditore che ha creato da solo una multinazionale, la Mapei, che rappresenta un’eccellenza italiana indiscussa nel mondo della chimica per costruzioni. E l’ha creata partendo da una piccola officina paterna, per svilupparla fino a creare stabilimenti in paesi come Canada e Gran Bretagna, non delocalizzando nella periferia della ricchezza mondiale.



La Mapei è un marchio di tale eccellenza che si basa sulla cultura classica dell’impresa, quella schumpeteraiana, oltretutto senza ricorrere alle lusinghe della finanza. Infatti, non è neppure quotata in Borsa, nonostante le insistenze di alcuni “maghi” della finanza e la promessa di tanti soldi. Alla fine, Squinzi può considerarsi un campione di quel cosiddetto “quarto capitalismo” che è stato scoperto e valorizzato dalla vecchia Mediobanca e dalla collaborazione con Unioncamere, che è emerso dagli studi di Fulvio Coltorti e dall’intuizione di Enrico Cuccia, che era diventato sempre più pessimista sul futuro dell’Italia e sulla capacità dei cosiddetti suoi grandi imprenditori.



Che cosa possono quindi provocare le frasi di questo tipo pronunciate da Squinzi ? Eccone alcune centrali del suo discorso: “La riforma della pubblica amministrazione è la madre di tutte le riforme”. Oppure: “La pressione fiscale è intollerabile, soprattutto quella che va a colpire i produttori di ricchezza, le imprese italiane. Non si può cambiare mensilmente le leggi tributarie”. E in genere: “Fisco e burocrazia sono una zavorra intollerabile”. Ancora: “La riforma del lavoro delude, serve a poco per la competitività”, ha cercato di sintetizzare Squinzi, ma le sue parole sono state come pietre. “L’Italia è fatta di imprese speciali che hanno bisogno di un Paese normale, cioè di un Paese con regole chiare, semplici, affidabili e soprattutto in un numero ragionevole, quindi la semplificazione amministrativa e territoriale non è più rinviabile”. Anche nel campo delle relazioni industriali, Squinzi non è stato tenero: “Bisogna far recuperare credibilità alla contrattazione nazionale e contemporaneamente guardare anche a una contrattazione legata alle esigenze di produttività delle imprese”.

Già in queste parole c’è una “sveglia forte”, molto più di un campanello d’allarme ai “tromboni dell’austerità”, agli “alfieri” dei dettagli burocratici e al limite ottuso degli esattori delle imposte. L’Italia, dice sostanzialmente Squinzi, ha bisogno di liberare le sue grandi capacità, le sue grandi energie, non può essere imbrigliata da burocrati che appartengono a una delle macchine più mastodontiche e inefficienti della storia umana, strenui difensori dei loro privilegi, e ai nuovi pubblicani romani travestiti spesso da una “caccia all’evasore”, che è giusta, ma che va fatta con il dovuto buon senso. Senza comprimere questa burocrazia soffocante e senza ragionare sulla pressione fiscale una via d’uscita dalla crisi è difficile. Altrimenti, non c’è via di scampo, perché alla fine non arriveranno mai investimenti esteri in Italia e una serie di imprese italiane saranno destinate a fallire.

C’è bisogno di nuove privatizzazioni fatte bene, c’è bisogno di più Europa con regolamenti migliori e anche in questo caso senza schemini burocratici degni di miglior causa, c’è bisogno di un passo indietro dello Stato, come quando si intavolano discussioni sulla “cogestione”: non bisogna saltare i protagonisti di una simile trattativa e magari infilarci sotto banco una legge, in qualche articolo, che sarà poi lo Stato a decidere.

Nella sostanza, Squinzi può essere certamente un continuatore della Confindustria di Emma Marcegaglia, ma un continuatore-innovatore, che può veramente rappresentare un momento di rottura interessante, un momento di discontinuità rispetto a un passato piuttosto grigio. Squinzi ha determinazione, costanza e anche il necessario fiuto politico per far comprendere che la cultura di impresa in questo Paese, quasi trascurata da ogni politica economica, non solo va riscattata, ma rilanciata in tutti i sensi, persino nella figura stessa dell’imprenditore. E quello che propone Squinzi non è la figura di un imprenditore irresponsabile, ma coinvolto in prima persona nella sua impresa, pronto a innovare e reinvestire per avere grandi capacità competitive sul mercato globale, per diventare, con Confindustria stessa, un “propulsore della crescita”.

Perché fidarsi di Squinzi? Perché lui è l’esempio che, malgrado le bardature burocratiche di questo Paese, malgrado tutti i problemi di credito e di pressione fiscale, sta in piedi con un’azienda gioiello, dove lavorano anche sua moglie e i suoi figli, al posto di aspettare la comoda dolcezza della rendita, che alla fine crea solo guasti irreparabili.

Ad ascoltare Squinzi, c’erano un paio di ministri, il Governatore della Banca d’Italia, i politici dell’Abc, i leader sindacali. Forse faranno “orecchie da mercante”, ma, in tutti i casi, questa volta hanno dovuto ascoltare problemi reali dell’economia italiana pronunciate dal Presidente di Confindustria. Questa volta i discorsi sui taxi e la parafarmacie sono rimasti fuori dalla porta e parevano, rispetto alla relazione di Squinzi, surreali.