Nella relazione pronunciata all’Assemblea Generale di Confindustria, il neo Presidente Giorgio Squinzi ha sollevato, in modo non retorico, né conflittuale, “le due grandi questioni del Paese”, quella storica del Mezzogiorno e quella settentrionale. Di quest’ultima ha detto che non si tratta di un artificio retorico e ne ha denunciato l’uso spesso strumentale. “È al tempo stesso una parte del Paese che soffre particolarmente in questa fase di crisi acuta, che sconta il fatto che in Italia una vera e propria politica industriale non abbia più ospitalità da anni”.  



Anche le recenti elezioni amministrative confermano il giudizio di Squinzi. Il Nord è sempre stata un’area di “voto libero”, nel senso che i cittadini – tra i quali si registra un tasso importante di imprenditori, professionisti e autonomi – non vive grazie alla politica. La domanda profonda che emerge dalla maggioranza della popolazione di questi territori chiede piuttosto da tempo alla politica e allo Stato maggiori gradi di libertà.



In particolare, chiede certezza della norma e annullamento della discrezionalità come condizione per investire; chiede meno vincoli burocratici per poter dedicare le energie a una competizione sui mercati divenuta più che turbolenta con la globalizzazione e poi con la crisi, senza trovarsi penalizzata rispetto ai concorrenti europei; chiede rispetto delle norme ed efficienza (cioè certezza dei tempi di risposta e di pagamento dei debiti) da parte dell’amministrazione pubblica; chiede protezione per il made in Italy, non come protezionismo, ma come repressione del dumping illegale; chiede infrastrutture e qualità delle stesse; chiede un rapporto diverso con il sistema del credito, che ti dà l’ombrello quando c’è il sole e te lo toglie quando piove; chiede anche meno tasse, per poter investire le risorse nell’attività (nel 2011, il Total Tax Rate – ha detto sempre Squinzi – inclusivo di tasse, prelievi e oneri gravanti su una piccola impresa era pari al 68,5%, contro il 46,7% della Germania e il 37,3% del Regno Unito; per effetto dell’Imu e di altri balzelli contributi a carico delle micro imprese, la media altissima dell’Italia è destinata a salire ulteriormente nel 2012).



Un mondo che chiede una politica industriale nuova, che affronti questi nodi (che sono quelli che il Presidente di Confindustria ha posto al Governo), non certo quella vecchia e dirigistica, fatta di definizione di settori nuovi da sostenere con sussidi e di settori maturi da abbandonare (questa è la politica che ha solo contribuito a devastare grandi settori in cui eravamo leader, come dimostra il caso della chimica).

Per troppo tempo il Nord è rimasto inascoltato nella sua richiesta di vivere in un Paese “normale”. La crisi che ora morde più che mai, unita all’incapacità della sua rappresentanza politica di intervenire efficacemente su questi dossier, ha determinato l’adesione a fenomeni e movimenti di protesta (si veda in proposito il commento di Ilvo Diamanti su La Repubblica di martedì scorso), sia attraverso il voto, che attraverso la scelta dell’astensione.

Anche le parti sociali, in particolare quella sindacale (con le dovute eccezioni, come ad esempio la Cisl regionale lombarda), sembrano in molti casi ferme a un modello vecchio di politica industriale che non è capace di leggere la trasformazione in atto dalla fine del secolo scorso, ancorata a un modello fordista, preteso come modello unico, alla difesa di principi astratti di tutela del lavoro (che parifica irrealisticamente una nuova società di software che produce applicazioni per gli smartphone e i tablet alla Thyssen) e a relazioni industriali conflittuali.

Come denuncia da tempo Aldo Bonomi, va valorizzato il nuovo ruolo dei territori e dei loro flussi, che sono i nuovi protagonisti dell’economia globalizzata. Lo ha compreso Squinzi, che è stato voluto dal 94% degli industriali su un programma che chiede di partire dai “campioni nazionali nascosti” (“un bene e un modello che molti ci invidiano”) che hanno sede in buona parte al Nord e di attuare una fiscalità “che premi gli innovatori”, che propone un modello di relazioni industriali nuove e più aderenti all’economia della conoscenza e del capitale umano e che chiede più Europa.

Quest’ultimo tratto sembra in controtendenza rispetto a una ”pancia” diffusa, anche tra gli imprenditori, che sembra chiedere quasi un annullamento dell’Europa, ma in realtà coglie un bisogno profondo del sistema produttivo del Nord che è ancorato indissolubilmente ai mercati europei. Si tratta di una lettura profonda e decisiva per la crescita. Una lettura che smentisce nei fatti quanti hanno dipinto nei mesi scorsi Giorgio Squinzi come portatore delle (sole) istanze del Centro e del Sud e dei grandi gruppi pubblici.

Il suo programma rappresenta i “valori industriali forti” del manifatturiero e della piccola industria “l’antropologia del fare impresa”, come la definisce Bonomi. Una lettura che interroga, oltre al Governo, il sistema delle rappresentanze economiche, sociali e politiche. Chi la lascerà cadere verrà, inesorabilmente, spazzato via.