Nella crisi economica che morde e ti deprime, gli italiani, gli imprenditori italiani, riescono ugualmente a resistere. Per il momento. Anche se i numeri sono impietosi e le difficoltà in cui riesce a metterti questo complicatissimo Stato, perfetto erede dell’ultima Bisanzio, sono impensabili. Fabrizio Nicoli è un imprenditore di Crevalcore, un centro emiliano che oggi deve fare i conti anche con le scosse di terremoto. Ma è anche un personaggio nel suo ramo di produzione. È amministratore delegato di Nova Srl e presidente dell’Anica-Lift, che tradotto vuole dire “Industrie italiane di componenti per ascensori”. Particolare che non si conosce e che naturalmente appare a tutti “trascurabile” in un Paese smemorato, queste industrie hanno fatto dell’Italia, fino al 2010, il leader al mondo come impianti e materiali prodotti in questo settore. In definitiva, un’altra leadership, un’altra eccellenza italiana che è stata superata probabilmente dalla Cina nel 2011, ma non certo per qualità. Un mondo che a ottobre sarà presente a Made Expo 2012.



Nicoli, lei che cosa produce esattamente?

Produciamo componenti per ascensori e, anche per diversificare, facciamo i cosiddetti “ascensorini”, quelli che si usano nelle case private. Il termine esatto è un po’burocratico: piattaforme elevatrici. La mia è un’impresa familiare, sono due famiglie le proprietarie. Abbiamo una cinquantina di dipendenti e quest’anno dovremmo celebrare l’anniversario dei primi 20 anni dell’azienda.



Credo che in questi tempi ci sia poco da festeggiare. Com’è la situazione del mercato nel vostro settore?

Il mercato italiano, inutile ricordarlo, è decisamente sotto tono.  Siamo legati alle costruzioni e alle ristrutturazioni. Ora si è bloccato tutto. L’unica area di business un po’ in movimento è quella che in gergo chiamiamo delle “modernizzazioni” . L’Italia ha un patrimonio immobiliare immenso e bellissimo, di stabili, di case senza ascensori. Questo è uno dei primi sbocchi. Poi ci sono le sostituzioni e/o messa a norma necessarie degli impianti ormai vecchi, obsoleti.



La soluzione può essere il mercato estero?

Questa è la strategia che stiamo spingendo con vigore da quando si è inserito alla guida di Anica il CdA che io presiedo. Al momento la mia azienda realizza un 30% del fatturato nell’export, ma l’obiettivo  è di  ampliarlo, e questo vale anche per tanti altri colleghi. Anica sta attivando varie iniziative di promozione dei marchi italiani all’estero. Ai primi di giugno andremo con 14 aziende in Inghilterra a far conoscere i nostri prodotti. Così come per ottobre prepareremo il nostro primo “Made Expo”. Lo scopo è ben preciso: dobbiamo far conoscere al mondo che l’industria italiana è viva, è presente, è innovativa.

Lei non ha mai lavorato per l’amministrazione pubblica?

Proprio no. Guardi, il minimo che posso fare è chiedere sempre una  garanzia, perché i miei dipendenti li voglio pagare a fine mese, di ogni mese, e quando sento alcuni termini di pagamento, oppure ascolto quelli che vantano  ancora crediti nei confronti dell’amministrazione pubblica, resto letteralmente di sasso. Quasi tutti hanno dei problemi di “insoluti” in questo momento, ma lo Stato deve  pagare i suoi debiti, altrimenti non ha nemmeno il diritto di pretendere i pagamenti dai propri cittadini e magari con pretese che non sono neppure eque. Questo è una anomalia, che deve essere risolta.

 

E il rapporto con le banche?

 

Non mi piace generalizzare, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Posso dire che il rapporto, tra lo scoppio della grande crisi e oggi, è completamente mutato. Una volta le banche quasi ti “imploravano” di prendere soldi in prestito. Ti sentivi dire: ma come lavora con i suoi soldi ? Era un mercato del credito drogato. Oggi mi sembra più realistico, con una serie di valutazione che varia da azienda ad azienda. Certo è più oneroso.

 

Mettiamoci sul conto dei problemi anche la pressione fiscale.

 

Esasperante. Guardi, in questo caso non le rispondo neppure perché il problema è un macigno. Questi continui cambiamenti di norme e adempimenti sono destabilizzanti;  la  burocrazia imperante ti costringe ad attorniarti di consulenti di ogni tipo che, naturalmente, costano; la mia azienda è ipercertificata, ma nella pratica ho la sensazione di aver accumulato solo costi aggiuntivi perché non ottengo un solo riconoscimento. Potendo esprimere una mia proposta direi: io azienda pago allo Stato 1/3 di quello che guadagno e poi mi dedico a fare l’imprenditore; tu Stato amministri questo 1/3 e esegua i controlli necessari senza “se” e senza “ma”; se l’azienda sbaglia è giusto che venga punita, ma se fa bene è giusto che abbia un riconoscimento. Eliminiamo contributi e incentivi che finiscono inevitabilmente per creare distorsioni del mercato,  e tagliamo la burocrazia subito?

 

Dovrebbe essere uno Stato di diritto che aiuta e favorisce lo sviluppo.

 

Sono 36 anni che lavoro e ho dovuto fare sempre i conti con questa burocrazia incredibile. Ma di quale crescita si parla? Come si fa a promuovere la crescita con una tale pressione fiscale e una tale burocrazia? In questo modo è letteralmente impossibile. Al momento è già tanto se riusciamo ad andare avanti.

 

(Gianluigi Da Rold)