Imprenditori di gran classe, maestri di un’eccellenza che riporta e impone il marchio “Made in Italy” sul mercato globale. Imprenditori che sono puniti solo da uno Stato ottuso sotto una valanga di tasse, di burocrazia quasi borbonica, di “lacci e lacciuoli” che fanno quasi morire dal ridere, se non ci fosse da piangere e definire il tutto grottesco. Alcuni resistono, altri saranno costretti presto a delocalizzare oppure a chiudere, con la “benedizione” di questo “governo dei tecnici” che ha persino dei problemi con l’aritmetica (il numero degli “esodati”?).



Vicino a Treviso, in quello che è uno dei tanti distretti dell’industria italiana, c’è un marchio fra i più conosciuti nella produzione di cucine che poi vanno in tutto il mondo. Questo marchio è la “Elmar Cucine”, azienda nata nel 1978 (che quindi quest’anno dovrebbe festeggiare i 34 anni di vita), 40 dipendenti con Stefano De Colle, in plancia di comando. Per fare un grande prodotto di qualità, i De Colle non hanno guardato a lesinare investimenti e innovazione. Le loro cucine sono disegnate da Lodovica e Roberto Palomba, premiati con “Il compasso d’oro”, un’eccellenza del design mondiale.



Quale è il risultato di tali sforzi, di questi continui riposizionamenti sul mercato?

Il risultato è che il mercato interno è bloccato, con una situazione talmente complessa che ormai tutti conosciamo e che sembra quasi inutile ripetere. È deprimente. Intanto, alle associazioni a cui facciamo riferimento, come FederlegnoArredo, hanno tagliato i fondi per l’internazionalizzazione. Per andare sui mercati esteri dovremo andarci da soli, con i mezzi possibili. Non si potranno neppure fare più convegni a livello internazionale, meeting per conoscere i mercati emergenti e far conoscere i nostri prodotti. Poi si parla di competitor internazionali! La Germania ci va con il suo apparato di esperti, persino con l’appoggio delle banche. Noi pensiamo di fare il contrario.



Signor De Colle, il suo sembra quasi uno sfogo.

È vero e non è nemmeno giusto farlo in questo modo. Siamo degli imprenditori, ci assumiamo le nostre responsabilità e continuiamo a produrre. Ma qualche volta cascano le braccia. Pensi alla richiesta fatta sui mobili acquistati per la prima casa, con l’Iva al 4%, così come fanno in Francia, in Belgio e una lunga serie di altri paesi. Lo Stato, attraverso la sua burocrazia e le sue leggi, impone che una casa senza cucina non possa essere abitabile. Ma poi non riesce nemmeno ad agevolare le coppie che si sposano e arredano la prima casa. E certamente non si crea nessuno stimolo e facilitazione per i clienti e i produttori.

Che prospettive vi ponete in un momento come questo?

Un’impresa per produrre e vivere dignitosamente ha bisogno di obiettivi e di una strategia chiara, di un piano industriale chiaro. In questo momento noi ci stiamo riposizionando su un target medio alto e puntiamo sul mercato estero, sui mercati emergenti. Il “Made in Italy” è apprezzato e copiato in tutto il mondo. Ci sono paesi del Medio Oriente che hanno già la capacità di consumare. E in quei paesi si costruiscono case, si mette su famiglia e si arreda anche la casa.

Vi giocate la partita sul’export?

Inevitabilmente. Negli anni Novanta e per diversi anni, fino al 2008, avevamo un fatturato che veniva per il 70% dal mercato interno e per il 30% da quello estero. Avevamo due clienti esteri importanti: la Grecia e la Spagna. Oggi, con la condizione di questi due paesi, occorre rivedere tutto. Siamo scesi a un rapporto di 85% di mercato interno e a un 15% di export. Tutto questo mi impone di essere alla vigilia di una partenza per l’Olanda, poi di andare a Istanbul e a Beirut, per conoscere bene la realtà del Medio Oriente. Ma presto, molto presto, andrò in India e in Cina.

 

Mi scusi se ripercorro il vostro modo di produrre. Partite da un know how predisposto da designer e tecnici. Siete al centro di un distretto che produce le ante, i semilavorati, il materiale, pregiato o meno pregiato, per fabbricare una cucina. Alla fine assemblate?

 

In parte assembliamo, in parte produciamo direttamente. La gamma di offerta delle nostre cucine è ampia: dai 5mila ai 40mila euro. Dipende dal materiale, dal pregio di un particolare tipo di legno, da alcune soluzioni innovative. Nelle soluzioni prospettate noi definiamo il bordo, lo spessore, diverse soluzioni. È un lavoro di grande qualità, di tecnologia raffinata. Certo, in una situazione come questa dobbiamo tutti riposizionarci. Restano alcuni Paesi che importano sempre i mobili italiani. È il caso della Russia, primo importatore fin dagli anni Novanta.

 

Nell’attuale momento di crisi i problemi si sono moltiplicati.

 

Quello degli “insoluti”, dei tempi di pagamento, che è uguale per tutti. Siamo stati obbligati a fare una selezione dei clienti e quindi riusciamo a far rispettare pagamenti, nella media, a 90 giorni. Ma poi ci sono quelli che sono in difficoltà, per cui si devono aspettare tempi incredibili. Se vogliamo, legato a questo, c’è il problema del rapporto con le banche, che io non posso dire che vada male. È ancora un rapporto costruttivo. Ma vede, è un rapporto che è mutato nel tempo: prima c’era la banca del territorio, il direttore di filiale che era proprio vicino alle aziende; a un certo punto la banca si è come “spersonalizzata”. Ora le banche hanno ricominciato a tornare al passato. È quello che fa sperare tutti: che ci sia veramente un’inversione di rotta, che ritornino a fare le banche. Il problema è il tempo. Il cambiamento, il ritorno a quel passato deve avvenire prima che molte aziende delocalizzino, oppure chiudano.

 

Veniamo al tasto della pressione fiscale. Come la definirebbe?

 

Non è difficile rispondere che è insostenibile ormai. In questo Paese tassano le persone e le aziende, di fronte a una spesa pubblica che è cresciuta negli ultimi dieci anni di 200 miliardi di euro. Mi chiedo se sia possibile ridurla solo di 5 miliardi, come ha proposto Enrico Bondi. Tassano le aziende e non ci favoriscono. Tassano le persone, magari con qualche punto di meno che in Svezia. Ma in Svezia, dove conosco diverse persone, anche italiani che sono andati a viverci, le tasse le pagano volentieri in cambio di servizi sociali che noi nemmeno ci sogniamo. Infine, le imprese pagano meno tasse che da noi.

 

In definitiva?

 

Continuiamo a farci tosare e la pressione fiscale è diventata intollerabile nella sostanza e nel modo.

 

(Gianluigi Da Rold)